di Stefania Mangione*

Oltre a essere destinatario di particolari attenzioni da parte di tecnici del diritto e stampa generalista, la vita del lavoro parasubordinato è sempre stata costellata da miti e leggende.

Un grande mito riguarda addirittura il battesimo delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.), più volte collocato, alla metà degli anni ’90 e, in particolare, al tempo dell’entrata in vigore della riforma pensionistica del 1995 che istituì una “cassa di gestione separata presso l’Inps” destinata a raccogliere un’aliquota (inizialmente) del 10%, calcolata sui compensi dei parasubordinati.

Al contrario, la figura delle co.co.co. è stata inserita stabilmente nel nostro ordinamento, a seguito della riforma del processo del lavoro del 1973 (art. 409 n. 3 c.p.c.), con l’obiettivo di assicurare la particolare tutela processuale spettante ai lavoratori subordinati (cosiddetto “rito del lavoro”) anche ai rapporti di lavoro autonomo coordinato: quelli più vicini al confine con la subordinazione perché continuativi, prevalentemente personali e funzionalmente iscritti in un’organizzazione altrui.

Sulle reali dimensioni del “popolo del 10%” si sono consumate, nel tempo, molte guerre di cifre: a seconda della modalità di raccolta dei dati, del conteggio delle iscrizioni alla gestione separata, del tipo di rilevazioni statistiche, del computo dei rapporti di collaborazione con la Pubblica amministrazione, del conteggio delle professioni ordinistiche e non, ecc., il numero dei lavoratori parasubordinati è oscillato da un minimo di 500 centomila a oltre due milioni.

Dopo la lunga parabola del “lavoro a progetto” – introdotto nel 2003 dalla Legge Biagi, novellato dalla riforma Fornero nel 2012 e “superato” dal cosiddetto “Jobs Act” – miti e leggende hanno finito per circondare anche la morte e la resurrezione delle co.co.co.: mentre nella primavera del 2015 il presidente del Consiglio Matteo Renzi ne celebrava la definitiva estinzione, altri si lamentavano che il legislatore avesse smantellano gli strumenti per limitarne l’abuso.

Stando al tenore testuale dell’art.2, d.lgs. n.81/2015 è agile rilevare come si tratti di due mezze verità che non ne fanno una intera. Per un verso si può confermare la perdurante sussistenza delle co.co.co. le quali, oggi, non devono più essere riconducibili a un progetto specifico; per altro verso, una parte non irrilevante di quelle collaborazioni sono oggi destinatarie dell’intero apparato di tutele predisposte dal diritto del lavoro a beneficio del lavoro subordinato (art. 2, primo comma).

Si tratta, in particolare, dei rapporti di co.co.co. nel cui ambito sia il committente a definire l’organizzazione del lavoro anche in riferimento al tempo e al luogo della prestazione, limitando, per questa via, l’autonomia organizzativa del collaboratore. Queste collaborazioni etero-organizzate restano formalmente co.co.co. ma sono destinatarie della disciplina propria dei subordinati.

Nemmeno questo è, però, sempre vero. Sempre l’art. 2 d.lgs. 81/2015 stabilisce, infatti, che alcune collaborazioni etero-organizzate non godono dei benefici assicurati dal primo comma: si tratta, nella specie, delle collaborazioni esclusivamente personali, rese dai professionisti iscritti agli ordini professionali o da amministratori e sindaci di società, di quelle rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche riconosciute dal Coni nonché, soprattutto, di tutte quelle attività di lavoro parasubordinato per le quali sia intervenuta una regolamentazione contrattual-collettiva, come accaduto, ad esempio, per i collaboratori dei call center.

In conclusione, anche per sfatare falsi miti, è bene riconoscere che, nel nostro ordinamento, esistono oggi, accanto ai lavoratori subordinati:

1) i collaboratori etero-organizzati dal committente anche con riguardo al tempo e al luogo di lavoro, ai quali è riconosciuta la medesima tutela spettante ai dipendenti;

2) i collaboratori etero-organizzati non destinatari di quella disciplina o perché ne hanno una specifica di fonte contrattual-collettiva (ad es. i collaboratori dei call center) o perché sono ritenuti, a vario titolo, non bisognosi di quella tutela (ad es. gli avvocati);

3) i collaboratori coordinati e continuativi non etero-organizzati, destinatari della tutela processuale, ma non di quella sostanziale del diritto del lavoro, fatte salve alcune limitate misure di carattere assicurativo, previdenziale e di tutela della maternità.

L’approvazione la scorsa settimana del Ddl sul lavoro autonomo che contiene una norma riguardante i co.co.co., non mancherà di alimentare nuovi miti e nuove leggende. Intanto, è bene che si sappia una cosa: oggi, quando un committente interferisce con l’organizzazione del lavoro di un collaboratore, questi può chiedere, anche in via giudiziale, l’applicazione delle tutele sostanziali che disciplinano i rapporti di lavoro dipendente, senza bisogno di provare l’eterodirezione dell’attività lavorativa che contraddistingue la subordinazione e senza bisogno di ottenere una riqualificazione del proprio rapporto come di tipo subordinato.

* Sono avvocata giuslavorista a Bologna per i lavoratori. Ho scritto, inseme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News.

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