Tutto nasce da “un manoscritto”, niente pc ma una lettera scritta a penna nel 2014 dagli allevatori dell’hinterland della zona industriale di Macchiareddu, alle porte di Cagliari, sud Sardegna. La denuncia trasmessa alla Procura era firmata da “Carboni e più”, poi supportata da una segnalazione dei veterinari della Asl. Le pecore che pascolavano lì, attorno ad Assemini, avevano ossa e denti che crescevano in modo abnorme fino a farle morire di stenti e fame. I “gravi danni” che i pastori lamentavano erano dovuti alla fluorosi, malattia causata dall’assunzione di troppo fluoro, appunto. A poche centinaia di metri c’era la Fluorsid Spa, leader mondiale nella produzione di acido fluoridrico necessario per l’alluminio, fondata nel 1969 dal conte Giulini ora di proprietà del figlio, patron del Cagliari calcio, Tommaso (a suo carico non risulta nulla). Il giro di affari è di 125 milioni di euro per 132 dipendenti diretti, più l’indotto. A due anni dalle indagini guidate dal Corpo forestale regionale è scattato il blitz: cinque arresti in carcere e due ai domiciliari e il sequestro di otto ettari: provvedimenti chiesti dal pm Marco Cocco e firmati dalla gip Cristina Ornano per via della “reiterazione del reato e dell’inquinamento delle prove”. Un terremoto che coinvolge i vertici e un’azienda esterna, l’accusa è “associazione a delinquere in disastro ambientale”. Un sodalizio con pratiche consolidate e consapevoli quello tracciato nell’ordinanza di custodia cautelare di 168 pagine: azioni, connivenze, silenzi e addirittura pagamenti di denaro definiti a più riprese “sconcertanti”. In carcere sono finiti Michele Lavanga, direttore dello stabilimento Fluorsid, Sandro Cossu, responsabile della sicurezza ambiente della società, Alessio Farci, ingegnere a capo della produzione dell’azienda, Marcello Pitzalis e Simone Nonnis, rispettivamente dipendente ed ex dipendente della Società Ineco che lavora presso lo stabilimento di Macchiareddu. Ai domiciliari il titolare della Ineco Armando Benvenuto Bollani e Giancarlo Lecis, funzionario tecnico della Fluorsid.
Le polveri nell’aria “dal Sahara” e lo strano caso delle centraline dell’Arpas
Inquinamento dell’aria, del suolo e del sottosuolo non sono una novità degli ultimi anni. Il caso delle pecore era addirittura emerso ormai trenta anni fa, nel 1983: c’è una sentenza civile della Corte d’appello di Cagliari che condanna la Fluorsid a un risarcimento. Poi “non è cambiato nulla”. Ancora altre polveri e altre pecore malate. Nell’ordinanza si legge: “Compimento di un sistematica, reiterata nel tempo e organizzata attività illecita diretta all’illegale stoccaggio e trattamento delle materie prime e sottoprodotti della Fluorsid e all’illegale smaltimento dei rifiuti prodotti dal ciclo di lavorazione”. E soprattutto c’era: “La piena consapevolezza della sistematica violazione delle norme poste a tutela dell’ambiente e della salute pubblica“. I fanghi acidivenivano sversati direttamente nello stagno di santa Gilla, le polveri di scarto stoccate senza nessuna precauzione in cumuli a contatto diretto con il terreno. Piccole colline alte dieci metri e larghe cento, poi movimentate con camion, ruspe e nastri trasportatori. L’intero stabilimento, come anche i lavoratori, era avvolto da una di polvere di “colore chiaro di consistenza finissima” che arrivava anche fin dentro le case civili di Assemini. Aria irrespirabile, denunciano i cittadini, nonché “forte bruciore agli occhi” e problemi alle vie respiratorie. La concentrazione degli elementi inquinanti aveva concentrazioni record: l’alluminio presente 3745 volte in più dei valori tabellari di norma, i fluoruri 1154 volte superiori e i solfati 51.
E le analisi di autocontrollo obbligatorie, il monitoraggio? Scrive il gip: “È significativo” che nell’area dello stabilimento, di fatto, “manchi qualsiasi rilevamento per l’aria, il suolo o il sistema idrico riferibile al fluoro”, nonostante si tratti del più importante produttore mondiale. Alle centraline dell’Arpas, Agenzia regionale per la protezione ambientale della Sardegna, – si legge ancora – manca proprio il parametro HF “acido fluoridrico”. E ancora la stessa Arpas tre anni fa, in una relazione sulla qualità dell’aria non fa menzione alle sostanze nocive, i problemi sono ricondotti “al contributo di fonti naturali dovuto al trasporto di polveri sahariane”. Anche l’autocontrollo non è efficace secondo il gip e lo stesso Ispra, Istituto regionale superiore per la protezione ambientale: il laboratorio esterno a cui venivano commissionate le analisi non aveva tutte le metodologie necessarie.
Il fine: “Produrre, produrre produrre…”
Tra il 2011 e il 2015 si registra un peggioramento dell’inquinamento delle acque di falda con un “gravissimo superamento dei limiti tabellari” dovute alle “condotte illecite” registrate durante le attività investigative. Tutto rivela: “Una conduzione organizzata per la sistematica violazione delle norme in materia ambientale al fine di massimizzare il profitto”. Omissioni, occultamenti, finte mail di richiamo dai dirigenti alla ditta d’appalto “da mettere nel cassetto”. Così nelle conversioni intercettate tra indagati e altri: “C’è la piena consapevolezza dell’emissione di altissime quantità di polveri altamente nocive per l’ambiente e pericolose per la salute”. Insomma tutto un gioco di abbattimento costi e incuranza delle norme. Ci sono molti passaggi in cui è chiaro che: “Non si rispettavano e omettevano le norme – in modo doloso – perché ciò avrebbe comportato un rallentamento della produzione, una qualità più scadente e costi di produzione più elevati”. Al telefono, nel 2016 due degli arrestati, Alessio Farci, responsabile della produzione solfato di calcio e Marcello Pitzalis, coordinatore dei lavori affidatati dalla Fluorsid, parlano del mancato contenimento delle polveri. E Pitzalis dice che non c’era il tempo per le precauzioni (bagnare le polveri, ndr): “A noi serve… Produrre, produrre, produrre!”. Sempre al telefono si parla dell’utilizzo di un cannone d’acqua, necessario per l’abbattimento. I controlli della Forestale e i sopralluoghi a sorpresa mettono un po’ di pressione, ma l’acqua non si può usare dice ancora Farci a un certo Francesco: “Perché mi si scassano le macchine”. Grave la situazione anche dei lavoratori: ci si ammala alla Fluorsid, alcuni operai hanno malori e lo stesso Farci lo ammette in una conversazione con Locci che diceva: “Eh, ingegnere, noi ne respiriamo e i bronchi, i polmoni ne risentono”. E Farci: “Eh c., se ne risentono. Ne risentono di brutto”. Eppure ciò non impedisce di puntare il cannone d’acqua verso lo stagno: “Non deve servire a niente – dice Farci – deve essere solo visibile dalla strada”. Una messinscena, insomma. In ogni caso i cannoni non si devono accendere o accendere “al minimo”. La presenza della polvere diffusa è costante e lo stesso Michele Lavanga, direttore dello stabilimento, tra gli arrestati, fa lavare le piante davanti al suo ufficio perché “Hanno fluorite!”. In più occasioni si ammette – nelle conversazioni – pure l’ipotesi degli “arresti”. E si moltiplicano le lamentele delle aziende confinanti.
I rifiuti nei canali, voragini e pozzi; le lastre di eternit in un laghetto e i video da “far sparire” perché “è reato…”
I rifiuti solidi e liquidi, eternit compreso, secondo l’accusa sono stati sversati, tombati in voragini, pozzi, laghetti e anche in alcune buche nei terreni comprati apposta – la cui proprietà è riconducibile anche alcuni dipendenti. La criolite in un canale tanto da tappare tutte le fogne e dover chiamare l’autospurgo, le lamine di eternit in un piccolo bacino naturale. Non tutto passa sotto silenzio, arrivano anche segnalazioni alla Forestale, perché si sversa direttamente dalle autobotti con la scritta Fluorsid e qualcuno vede. Nelle intercettazioni tra gli indagati emerge sempre la consapevolezza: si parla di “morchia acida” e della grave situazione tra Lecis (funzionario Fluorsid) e Bollani – ditta d’appalto chiamata a eseguire i lavori: “Siamo in perfetto dramma, abbiamo 2 metri abbiamo 2 metri e 50 di fanghi nel decantatore e un assetto di impianto che non ci permette di abbassare il livello”. E poi appaiono dei video con le perdite di cloruro, altamente tossiche. Immagini in mano a una Rsu, a cui subito arrivano le intimazioni di cancellare qualsiasi prova: prima da parte di un collega rappresentante di base fino a quelle dello stesso direttore Lavanga. “Mi fate la santa cortesia – urla – di far sparire immediatamente foto e video e quant’altro riguarda la Fluorsid perché se questa roba va in giro vi inc…”, così si legge. E ancora: “Non l’ho voluto vedere, le ho detto: guai a te se mi parli di video, perché i video non possono esistere, guai a chi faccia video, filmati all’interno della fabbrica perchéquesto è reato”. Gli operai manovrano le ruspe e ritrovano: “Merda, merderia, roba nera…”. In più passaggi emerge lo smaltimento dell’eternit – pari a 13.500 metri quadri di lastre (pari alla superficie di un ipermercato) avvenuto con il semplice sotterramento “accanto al fiume” o in altri terreni o addirittura in un laghetto dell’area. Una quantità enorme che Fluorsid “era obbligata e aveva urgenza di smaltire”. Gli operai parlano ancora tra di loro, si lamentano: “Che c. non è niente. Vai e guarda cosa fa l’eternit”. Le norme ambientali restano un pallino con i sempre più frequenti sopralluoghi della Forestale e addirittura si mettono a segno piccole truffe: riescono a vendere rifiuti ad acquirenti nigeriani, materiale “destinato alla Buzzi Berletta”.
Il gruppo ha ambizioni internazionali, un anno fa, per dodici milioni e mezzo di euro acquista la società norvegese Noralf controllata dalla multinazionale Boliden. Non solo puro business, si legge ancora nell’ordinanza. Dalle conversazioni di Bollani emerge il passaggio sarebbe stato fatto “per avvantaggiarsi della maggiore elasticità della normativa di quel paese in materia di tutela ambientale”. Le indagini ora continuano e la Procura intende individuare eventuali complici, ma “andrà approfondito – si legge nell’ordinanza – il livello di coinvolgimento in tali pratiche dell’intera dirigenza e della stessa proprietà della Fluorsid”.