Il presidente del Pd Matteo Orfini contro l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Oggetto del contendere, ancora una volta, la pubblicazione sul Fatto Quotidiano della telefonata tra Matteo Renzi e il padre Tiziano sulla vicenda Consip. Mercoledì Napolitano, intervenendo nella polemica su quella che Orfini aveva definito “gogna mediatica”, ha rivendicato di avere “da anni” messo “il dito nella piaga” di “questa insopportabile violazione della libertà dei cittadini, dello stato di diritto e degli equilibri istituzionali”. Ma Orfini non ci sta e ricorda che l’allora senatore a vita non salì sulle barricate quando, il 31 dicembre 2005, sul Giornale comparve la conversazione in cui il segretario Ds Piero Fassino chiedeva all’ad di Unipol Giovanni Consorte (impegnato a scalare Bnl) “Abbiamo una banca?“. Napolitano ribatte e chiede le sue scuse. È Orfini, però, ad avere ragione.
Il deputato Pd giovedì ha ritwittato un commento che ricordava: “La ‘pubblicazione a strascico’ di intercettazioni irrilevanti e/o illegali parte col caso Unipol. E non ricordo altolà di Napolitano, allora”. Immediata la reazione dell’ex inquilino del Colle, che ha fatto sapere di aver “inviato all’onorevole Matteo Orfini, incerto nella memoria ma pronto ad alimentare insinuazioni malevole, dei riferimenti documentali relativi a quel che dichiarai circa le ‘pubblicazioni di intercettazioni irrilevanti sul caso Unipol”. “Lo ringrazio”, ha risposto a stretto giro Orfini, “per avermi inviato privatamente documenti che ho letto con attenzione. Pur tuttavia sono relativi a un periodo successivo a quello a cui facevo riferimento io. Non ho alcuna difficoltà nel riconoscere un’evoluzione positiva nel pensiero del Presidente e un’impeccabile fermezza sul tema, soprattutto durante la sua presidenza. Ma nel periodo a cui mi riferivo le cose andarono diversamente. Allora eravamo dirigenti di un altro partito e avemmo posizioni differenti al riguardo. Non vedo cosa ci sia di malevolo nel ricordarlo”.
E in effetti gli archivi dell’Ansa gli danno ragione. Nel gennaio 2006 l’ex esponente Pci, nominato senatore a vita nel settembre 2005, si limitò a commentare la vicenda Unipol nel merito. Ammonendo la sinistra a “non scegliere di parteggiare per uno dei soggetti dando l’impressione di avere propri punti di riferimento o di volersi dotare di leve di intervento per influire sugli assetti di potere”. Solo dopo l’elezione al Colle, il 15 maggio 2006, Napolitano prese esplicitamente posizione sulle intercettazioni. Il 28 settembre, per esempio, durante la consegna del premio Saint Vincent disse ai giornalisti che l’unico limite della libertà di stampa sta “nel comune impegno contro l’illegalità compresa la violazione del diritto alla privacy”.
Il 5 ottobre 2007, durante un convegno sul tema all’Università Bocconi, ribadì che la loro disciplina ”impone l’accorto bilanciamento tra diverse esigenze, collegate, in particolare, alla necessità di accertamento dei reati, alla tutela della sfera di riservatezza individuale, al rispetto del segreto investigativo e del diritto di cronaca”. Bisogna però aspettare il successivo 22 novembre per un intervento più tranchant: “Le intercettazioni sarebbe bene che restassero dove devono restare, in linea di principio, almeno fino a che c’è il segreto istruttorio”. Posizione che negli anni della presidenza rafforzò ulteriormente: il 20 luglio 2009, nel giorno in cui l’Espresso divulgava in esclusiva sul suo sito le conversazioni tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e la escort Patrizia D’Addario, ammonì a trovare ”soluzioni appropriate e il più possibile condivise” (in Parlamento era in discussione una riforma) per mettere fine alla ”spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie e dei processi”. E chiese ai media di ”a non farsi condizionare dal timore della concorrenza nello scandalismo, anche il più volgare”.