Le loro storie sono rimaste a lungo nell’ombra. Le loro voci inascoltate. La voce di Dilia, 79 anni, colombiana di El Dificil, che ha già perso il marito e cinque dei suoi nove figli per la stessa malattia; di Maria, venezuelana di Maracaibo, che ha il marito e il figlio di 13 anni entrambi malati; e di Brenda, 15 anni, di Buenos Aires, che vive con una zia che si prende cura di lei. Donne emarginate, spesso condannate a vivere in uno stato di isolamento e abbandono. Allontanate da ogni forma di vita sociale perché considerate “indemoniate”, a causa di una malattia neurodegenerativa ereditaria che incatena i loro corpi o quelli dei loro cari in movimenti involontari, in continui spasmi, e trasfigura la loro mimica facciale. Una malattia, la corea (in greco danza) di Huntington che, per questa ragione, in Italia è semplicisticamente chiamata Ballo di San Vito. L’andatura instabile e i movimenti incontrollabili dei malati ricordano, infatti, una danza. Ma nel tempo questa danza rallenta, si attenua progressivamente, fino a quando il corpo dei malati non diventa immobile.
“Mai più nascosti”
In questi giorni di metà maggio molti di loro – circa duemila tra malati, familiari, ricercatori e membri di associazioni che si occupano della patologia – hanno intrapreso un lungo viaggio, che li ha portati a Roma per un’udienza speciale con Papa Francesco, nell’aula Nervi, in Vaticano, e un incontro nell’aula del Senato con il presidente Grasso. È il primo raduno mondiale dei malati di corea di Huntington, organizzato nel corso della campagna internazionale “HDdennomore” (mai più nascosti). La maggior parte di loro arriva dal Sud America – Venezuela, Colombia, Argentina, Brasile -, Paesi in cui l’incidenza della malattia è fino a mille volte più alta rispetto al resto del mondo. È in queste regioni, infatti, in particolare nel Venezuela, nei pressi del lago Maracaibo, che un quarto di secolo fa, nel 1993, è stato identificato per la prima volta il gene responsabile della malattia. Un’impresa scientifica senza precedenti, che ha coinvolto 58 ricercatori provenienti da Paesi e istituti diversi. “Molti dei malati prima di partire non avevano nulla, né vestiti, né documenti d’identità”, racconta commossa Elena Cattaneo, senatrice a vita e scienziata tra le massime esperte al mondo di corea di Huntington. La studiosa, insieme a Charles Sabine, ex inviato di guerra della Nbc News, portatore della patologia e portavoce dei malati, ha voluto fortemente questo incontro romano. “Lo dobbiamo a queste donne e a questi uomini – spiega la scienziat durante l’incontro con i malati in Senato -. Lo dobbiamo a Dilia, a Maria, a Brenda e a tutti i malati che ci dimostrano quanto coraggio ci può essere in un essere umano nell’affrontare la discriminazione e l’ignoranza. Che a volte fanno più danni della stessa malattia. Da quando, da oltre vent’anni, all’Università Statale di Milano studiamo questa patologia – aggiunge la senatrice a vita -, la responsabilità a cui mi sento ogni giorno chiamata è aprire le porte del nostro laboratorio, e raccontare la storia della malattia. Per dire mai più all’emarginazione, e all’ingiustizia di un accesso all’assistenza e alle cure limitato solo a una parte del mondo”.
Nel mondo un milione di malati
La corea di Huntington colpisce circa un milione di persone. È una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale, causata dalla mutazione di un singolo gene, che uccide i neuroni nelle aree cerebrali che controllano il movimento e le funzioni cognitive superiori. Peggiorando, così, le abilità fisiche e mentali di coloro che ne soffrono. Con un effetto negativo a cascata. Questi sintomi – che si manifestano intorno ai 30-50 anni e a volte, nella forma giovanile, anche in età adolescenziale – costringono, infatti, chi ne è colpito a nascondere la malattia, per vergogna o per paura di discriminazione, portando a una progressiva emarginazione sociale dei malati. “Gli esseri umani – ricorda Sabine – perdono il proprio equilibrio nella società quando sono privati di due cose: dignità e speranza concreta”.
E in Italia? A partire dal gennaio 2017 la corea di Huntington, come tutte le altre cosiddette malattie rare – quelle, cioè, che colpiscono meno di una persona ogni 2000 – è stata inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le prestazioni garantite ai cittadini dal Sistema sanitario nazionale. Nel nostro Paese una statistica precisa del numero di persone malate o a rischio non c’è. Non esistono, infatti, studi relativi alla sua incidenza sul territorio nazionale. Come non esistono ancora nel mondo farmaci in grado di prevenire, bloccare o rallentare la progressione della malattia.
La ricerca punta sulla terapia genica
Le maggiori speranze sono riposte nella terapia genica, che mira a inattivare il gene mutato per impedire l’insorgenza della patologia. La strategia si basa sulla scoperta, premiata con il Nobel in medicina nel 2006, di un gruppo di molecole in grado di legarsi al messaggero del gene mutato e di distruggerlo. Si chiamano Rna interferenti, perché ostacolano il funzionamento di un gene, in questo caso quello responsabile della malattia di Huntington, impedendogli di codificare le proteine tossiche, dannose per l’organismo. Secondo quanto riportato in un dossier pubblicato dal centro studi del Senato in occasione dell’incontro con i malati di Huntington (qui il link), è in corso una sperimentazione internazionale basata su queste molecole interferenti, che “nell’agosto 2015 ha arruolato il primo paziente in Europa. I dati sulla sicurezza del trattamento saranno disponibili alla fine del 2017”.
“Tutti noi abbiamo il gene che nella forma mutata provoca la malattia – spiega Elena Cattaneo -. Un gene antico, con una storia vecchia di 800 milioni di anni, che lo ha portato fino a noi. È caratterizzato da ripetizioni in successione di gruppi di tre lettere del Dna, CAG, variabili tra le 9 e le 35 nelle persone sane. Quando il numero di queste ripetizioni supera la soglia limite di 36 – aggiunge la studiosa -, ecco che insorge la malattia. Il rischio di trasmetterla da un genitore a ciascun figlio è del 50%”. Secondo la ricercatrice italiana, la malattia potrebbe far parte di un disegno più ampio dell’evoluzione. “Il fatto che le triplette di CAG superino una data soglia potrebbe aver contribuito a farci diventare quello che siamo. In quest’ottica – spiega Cattaneo -, la malattia di Huntington non sarebbe una tara genetica, ma il sintomo di funzionalità migliori che cercano di assestarsi nel cervello, a nostra insaputa, e che per il momento hanno prodotto insuccessi. Sta a noi ricercatori – conclude la scienziata – impegnarci a fondo per venirne a capo, attraverso le armi della conoscenza”.