Alcuni giorni prima della sentenza, Adele Chiello lo ha sussurrato al telefono con un filo di voce: “Sono stanca, andiamo incontro all’estate e ci sono ancora tante battaglie da combattere”. Era una domenica pomeriggio, tornava da un incontro in un paese della Sicilia dov’era stata chiamata a parlare di suo figlio Giuseppe Tusa, una delle nove vittime del crollo della Torre Piloti causata dall’impatto con il cargo Jolly Nero. “L’ho accompagnato io al concorso, la Capitaneria me lo ha restituito in una bara a 29 anni”, ha sintetizzato Adele due anni fa al nostro giornale. La colpa di quella notte, ha stabilito il tribunale di Genova, è imputabile solo a chi era a bordo del mercantile. Sbagliarono la manovra e nulla più.
Non contano i precedenti malfunzionamenti – una ventina secondo l’accusa nella flotta Messina – che si verificavano nella fase di ripartenza dei motori dopo l’inserimento della marcia avanti, né quel contagiri evidentemente malmesso ma mai aggiustato. Non pesano le ombre che si addensano in un altro filone d’indagine nei confronti di chi doveva controllare e, sospettano i magistrati, non lo fece, dando l’ok alla navigazione del Jolly Nero e di altre navi. Tra cui il Norman Atlantic andato a fuoco nel dicembre 2014 causando 28 morti. Pericolose commistioni, ancora tutte provare, tra Capitaneria di porto, ovvero il datore di lavoro di Giuseppe, l’ente certificatore Rina e gli armatori.
Sospetti avanzati per la prima volta in un’intervista al Tg2 proprio da Adele, pochi mesi dopo il disastro. “Bastava leggere le carte, non sono una veggente”, ha detto lo scorso anno quando la procura ha aperto un’indagine sulle certificazioni facili del Rina che oggi conta oltre 30 indagati. La storia del Jolly Nero restituisce una sentenza “poco coraggiosa” – come l’ha definita Massimiliano Gabrielli, legale che da anni si batte in difesa delle vittime in tutti i disastri legati ai grandi trasporti – a fronte di uno sforzo immenso della procura che aveva chiesto pene esemplari per tutti gli imputati. Tra i condannati non c’è invece l’anello di congiunzione tra chi va per mare e chi imbarca gli equipaggi, affidando loro il governo delle navi: il manager della Messina, Gian Paolo Olmetti, è stato assolto e così, dopo la lettura della sentenza, la compagnia ha scandito a petto in fuori “le nostre sono sicure”.
La colpa è ancora una volta esclusivamente di comandante e ufficiali di bordo, non di chi dovrebbe investire in sicurezza e garantire che tutto funzioni sempre alla perfezione. Era uno degli snodi cruciali del processo su quella notte buia per Genova e per tutto il mondo marittimo italiano, perché colpì al cuore il suo porto più importante. Ad Adele non importava – e non importa ancora oggi, né importerà domani – dell’eventuale carcere del comandante Roberto Paoloni, figuriamoci dei soldi che le verranno dati. Scansando la vendetta e mirando all’etica, solo pochi giorni fa ci aveva detto: “La galera non ha mai migliorato nessuno. Perché questa strage dia un input per tutti i disastri è necessario che la Messina venga commissariata, come ha chiesto l’accusa. Sarebbe un segno di civiltà, un monito per tutti i furbetti d’Italia che in nome del denaro sono disposti a mettere in conto incidenti, lutti e dolore”.
Invece Olmetti e quindi la società armatrice non hanno alcuna colpa, ha stabilito il giudice. Restano i precedenti problemi, quel Jolly Platino che nel 2003 a Massa Carrara si fermò a tre metri dagli yacht per lo stesso identico problema del suo ‘gemello’ Nero, come ha raccontato un marinaio che era a bordo. Ombre, mezze verità, indizi che ritornano a ogni disastro per poi sfumare puntualmente. Proprio quando sembrava che Adele e tutte le altre vittime, che ormai fanno rete da Viareggio alla Concordia e fino al disastro ferroviario sulla Andria-Corato, fossero sul punto di trovare un attimo di pace. Dopo la lettura della sentenza, sono tornati invece a vivere quell’inferno che la mamma di un altro ragazzo morto nel crollo ha detto in lacrime di vedere, da quel maledetto 7 maggio 2013, ogni qual volta chiude gli occhi. Tra quelle fiamme di dolore stanno espiando la loro colpa involontaria. La prima e a volte l’unica che si paga in questo Paese. Quella di essere vittime.