Domani andiamo a Milano per scendere in piazza e partecipare al corteo e allo spettacolo “20 maggio senza muri”. Una manifestazione pro-rifugiati e pro-migranti: mi scuso per la semplicità un po’ provocatoria della definizione, ma al sodo di questo si tratta, come hanno ben colto, dal lato opposto, le solite voci xenofobe.
Per cosa scendere in piazza al giorno d’oggi sul tema migranti e rifugiati? Vorrei dare più evidenza a due elementi sottovalutati, e magari darne un po’ meno ad altri pur validi ma che rischiano di deviare l’attenzione su questioni a mio giudizio di minor importanza.
Il tema numero uno oggi in Italia dovrebbe essere quello di fermare la spirale demenziale della “clandestinizzazione” dei richiedenti asilo. Stiamo parlando non più di decine ma di centinaia di migliaia di persone (di giovani, in sostanza) che non riescono a ottenere nessun tipo di permesso di soggiorno in base ai criteri dell’asilo e della protezione e che si ritrovano a un certo punto senza permesso o addirittura espulsi pur avendo avviato dei percorsi di formazione e magari anche di lavoro. La loro vita diventa molto più difficile, vanno ad alimentare ulteriormente lavoro nero o addirittura microcriminalità, cercano di trovare un po’ di aiuti da connazionali sparsi per l’Europa, pesano sull’assistenza ai senza fissa dimora. E’ appunto una situazione che non giova a nessuno e la loro espulsione con rimpatrio è di fatto impossibile, se non per qualche malcapitato.
Già la loro presenza in Italia – non sto parlando di chi fugge dalla guerra o da precise e specifiche persecuzioni – è dovuta al fatto che non si può avere un visto per lavoro o per la ricerca di un lavoro, per cui l’unico modo di venire attualmente dall’Africa è il barcone dalla Libia. Ma poi succede addirittura che il lavoro lo trovino – come richiedente asilo – ma che non lo possano proseguire perché la richiesta di asilo è stata bocciata. Non si tratta quindi di concedere l’asilo a tutti, ma di riconoscere i percorsi di integrazione avviati e di regolarizzare la situazione di fatto. Lo sta chiedendo anche il Consiglio comunale di Milano, con un ordine del giorno. Lo sanno, al Ministero degli Interni, che sarebbe la cosa migliore ma il governo teme di perdere voti se avvia la pur indispensabile sanatoria. Questo è il punto politico e pratico, il punto centrale su cui imporre una svolta.
L’altro tema è quello, drammatico, della vita e dei diritti umani elementari di chi è arrivato dalla Libia. Dietro le campagne di discredito delle ong, ma anche dietro il tifo governativo italiano per la guardia costiera libica c’è un poco consapevole o orrendo non detto: meglio che ne muoia qualcuno in più e chi se ne frega dei lager in cui li seviziano in Libia, l’importante è che non arrivino qui.
Finora, invece, nelle dichiarazioni o nei discorsi sui social riguardo al 20 maggio, sono stati enfatizzati altri aspetti: l’opposizione più o meno radicale al decreto Minniti che abolisce un grado di giudizio nel ricorso dei denegati, oppure l’aspetto di orgoglio “meneghino” per Milano accogliente. Temi che hanno la loro validità ma quando cerco di spiegare ai giovani africani richiedenti asilo per quali ragioni dovrebbero venire alla manifestazione, né l’orgoglio meneghino né la probabile (spero) incostituzionalità del decreto Minniti sono argomenti decisivi. Ci capiamo se parliamo della necessità del permesso di soggiorno per “chi ha avviato percorsi di integrazione” e che i loro simili ancora nell’inferno libico vengano salvati sia dalla morte che dalle sevizie.