L’intervento dello Stato non basta. Per salvare Popolare di Vicenza e Veneto Banca servono anche capitali privati. E tanti. È questo il segnale chiaro e forte che arriva da Bruxelles. A darne notizia è l’agenzia di stampa Reuters che sottolinea di avere avuto conferma della richiesta da ben sei fonti differenti. Il problema è quello delle perdite previste e prevedibili che in nessun modo possono essere coperte da fondi pubblici. L’entità delle perdite ancora non è nota, ma è intuibile che si tratti di una cifra ben superiore al miliardo di euro perché, tra le altre cose, i due istituti veneti dovranno cedere i loro crediti in sofferenza al prezzo di mercato che è di gran lunga inferiore al valore a cui le sofferenze sono iscritte a bilancio. Quest’ulteriore svalutazione, e la conseguente perdita, rientra nell’ambito del previsto e del prevedibile e la legislazione europea impone che a coprirla siano dunque fondi privati.

Su questo punto Bruxelles è irremovibile e a Roma, così come a Vicenza e Montebelluna, cresce l’agitazione. Se lo Stato non può coprire le perdite chi metterà i soldi? E’ ipotizzabile che il sistema bancario italiano intervenga ancora una volta al capezzale delle due moribonde dopo aver contribuito in modo assai consistente alla creazione del fondo Atlante incassando solo perdite? E che dire dei miliardi di euro spesi per il salvataggio di Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara (e il conto è in parte ancora da saldare), per non parlare della creazione del fondo volontario gestito dal Fondo Interbancario che è già intervenuto per salvare due banche minori?

Se non bastasse molti istituti, anche solidi, hanno i loro problemi e la stessa Ubi, che ha acquistato per un euro tre delle quattro banche messe in risoluzione nel novembre 2014, ha varato un piano che prevede un forte ridimensionamento della presenza territoriale e del personale. A livello di sistema, di qui al 2020-2021 si stimano 30mila esuberi che vanno finanziati. Eppure, se il sistema bancario non interverrà, il destino di Popolare di Vicenza e Veneto Banca pare irrimediabilmente segnato. Il problema è che anche intervenendo non c’è alcuna garanzia di successo: ammesso e non concesso che lo Stato alla fine ottenga da Bruxelles il via libera per entrare nel capitale, il futuro dei due istituti è appeso a un progetto di fusione volto a ridimensionare i costi nella speranza di trovare un difficile equilibrio che consenta di tornare alla redditività.

Fantasie da piano industriale. La realtà delle due banche è che hanno perso la fiducia dei loro clienti, specie di quelli che generano più business e hanno ingenti patrimoni. Chi ha potuto se n’è già andato alla concorrenza da un pezzo con buona pace della retorica del “territorio”. Il risultato è che nessun privato sano di mente è disposto a investire un solo centesimo su Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Non lo ha fatto lo scorso anno, quando le due banche hanno addirittura provato a giocare la carta della quotazione in Borsa (e i loro strampalati prospetti informativi hanno ricevuto il placet della Consob), perché mai dovrebbe farlo adesso? L’esperienza del fondo Atlante è illuminante: ha iniettato quasi 3,5 miliardi di euro nelle casse dei due istituti per vederli bruciati dalle perdite in meno di un anno. Risorse preziose gettate dalla finestra con il solo obiettivo di “comprare tempo” nell’illusoria speranza di un miracolo che ovviamente non è arrivato. E’ arrivata invece, puntuale, la richiesta di intervento statale che prevede come minimo la sottoscrizione di un aumento di capitale da 6,4 miliardi (ma la cifra è puramente indicativa). A questi fondi dovranno aggiungersi quelli dei privati che serviranno appunto a coprire le perdite miliardarie generate anche dalla cessione delle sofferenze.

Cosa farà questa volta il sistema bancario? Si autotasserà per buttare nuove risorse nella fornace o deciderà che forse non è il caso di sprecare le poche cartucce che restano? La decisione dipenderà dall’entità dello sforzo richiesto e dalle scelte degli “azionisti di maggioranza”, vale a dire Unicredit, Intesa Sanpaolo, Ubi e Banco Bpm, ma è difficile immaginare un esito positivo. Unicredit è impegnata a implementare il suo piano industriale e a conseguire gli ambiziosi obiettivi illustrati agli azionisti e alla comunità finanziaria e difficilmente potrà assecondare richieste di questo tenore. Ubi deve digerire l’acquisto delle tre good bank, gestire la loro integrazione e la ristrutturazione a livello di gruppo, mentre Banco Bpm è alle prese con i suoi di problemi, che non sono pochi. Quanto a Intesa Sanpaolo, a meno di ripensamenti dell’ultimo minuto una scelta netta già l’ha fatta decidendo di non effettuare investimenti aggiuntivi nel fondo Atlante.

Se il sistema bancario non interverrà, significa dunque che il bail-in di due banche di medie dimensioni non fa più così paura: comprare tempo non sarà servito a salvarle, ma almeno ha contribuito a sterilizzare il rischio di contagio sistemico e adesso un’eventuale risoluzione non avrebbe più l’impatto dirompente che avrebbe avuto solo un anno fa. Certo, gli obbligazionisti si ritroverebbero azzerati (i correntisti no, anche perché è difficile immaginare che qualcuno abbia mantenuto sul conto più di 100mila euro) e ai debitori verrebbe probabilmente richiesto il rientro immediato con le ripercussioni che si possono facilmente immaginare sulle famiglie, sulle imprese e, più in generale, sull’economia dei territori in cui sono presenti Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Se a fare un’analisi costi-benefici è la politica l’esito è abbastanza scontato: temendo di dover fronteggiare la rabbia dei cittadini e pagare il prezzo di un ulteriore calo dei consensi si andrà avanti sulla strada del salvataggio a tutti i costi cercando una quadra impossibile con Bruxelles. E si finirà con il prendere l’ennesima musata.

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