E' lo stesso ministro della Giustizia a svelare la lacuna nell'intervista rilasciata a La Repubblica in cui si schiera contro la pubblicazione del colloquio tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano sul Fatto Quotidiano. Una sentenza del 7 giugno 2007 della Corte Europea dei diritti dell'uomo stabilisce che il diritto dell'opinione pubblica a essere informata prevale sul segreto istruttorio. Però il guardasigilli non lo sa
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando non conosce le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di intercettazioni. Lo svela lo stesso guardasigilli nell’intervista rilasciata oggi a La Repubblica in cui stigmatizza la pubblicazione del colloquio tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano sul Fatto Quotidiano. “Le sentenze di Strasburgo parlano di privacy attenuata per i politici”, gli fa notare la giornalista riferendosi all’opportunità per chi fa politica di rispondere dei propri comportamenti privati quando questi sconfinano nella sfera pubblica. E il numero uno di via Arenula replica secco: “Non riguardo alle intercettazioni. La loro diffusione è un’anomalia tutta italiana”. Non è vero: la sentenza Jérôme Dupuis e Jean-Marie Pontaut contro la Francia emessa dalla Cedu il 7 giugno 2007 dice l’esatto contrario. Ovvero che il diritto dell’opinione pubblica a essere informata prevale sul segreto istruttorio.
I fatti. Nel 1996 Jérôme Dupuis e Jean-Marie Pontaut erano finiti in tribunale per aver raccontato nel libro Les Oreilles du Président il sistema di spionaggio illegale attraverso il quale l’Eliseo guidato da François Mitterrand aveva intercettato oltre 2mila tra politici, giornalisti, editori, attori, avvocati e imprenditori tra il 1983 e il 1986. In pagina finivano, tra gli altri, i virgolettati rubati al ministro dell’Interno Charles Pasqua che scambiava osservazioni con un suo collaboratore, alla moglie dell’allora primo ministro Laurent Fabius che si confidava con un giornalista, ma anche allo scrittore Jean-Edern Hallier che parlava dei segreti dell’alcova di Mitterrand.
Dopo l’uscita del libro, G.M., collaboratore del presidente socialista finito a processo per quella vicenda, denunciò Dupuis e Pontaut, accusandoli di aver pubblicato brandelli di colloqui privati estratti illegalmente dagli atti giudiziari. Il 10 settembre 1998 il Tribunale di Parigi condannò i cronisti a una pena pecuniaria, stabilendo che il materiale utilizzato era coperto da segreto istruttorio e che la vita personale e i diritti di difesa del funzionario – del quale i reporter avevano raccontato la vicenda giudiziaria – erano stati violati. Sentenza confermata il 16 giugno 1999 dalla Corte d’Appello e poi dalla Cassazione il 19 giugno 2001.
Il caso finiva dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel 2007 giudicava la condanna “sproporzionata di fronte alla libertà d’espressione dei due interessati”. Le toghe di Strasburgo stabilivano che Dupuis e Pontaut avevano sì violato le norme sul segreto istruttorio, ma giudicavano prevalente l’esigenza dell’opinione pubblica a essere informata sul procedimento giudiziario e sui fatti raccontati nel libro. Secondo la Corte, il diritto dei cronisti di pubblicare notizie su inchieste in corso prevale sulle esigenze di segretezza delle attività giudiziarie, anche se sui giornali finiscono verbali di intercettazioni acquisite illegalmente dalle autorità pubbliche. Giusto, quindi, pubblicare i colloqui privati carpiti dall’Eliseo. Falsa l’affermazione di Andrea Orlando.
Che nella doppia qualità di ministro della Giustizia e firmatario del ddl penale che si propone di intervenire sulla materia, dovrebbe conoscere la sentenza. Ma il guardasigilli manca il punto anche su un altro argomento utilizzato per lanciare la sua provocazione: “Chi è un uomo pubblico? – domanda il ministro nell’intervista – il potere non è solo politico. Perché non ci dovrebbe essere la privacy attenuata per i giornalisti?”. Risposta ovvia: perché, a differenza degli uomini politici, i giornalisti non vengono eletti e soprattutto non decidono dell’impiego del denaro dei contribuenti.