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Gamera Interactive Padova: in attesa di Unit4 intervista al fondatore Alberto Belli

Gamera Interactive è uno studio dedicato allo sviluppo di videogame fondato a Padova poco più di un anno fa da Alberto Belli, professionista del settore con oltre 15anni di esperienza sulle spalle, con cui collaborano vari big del settore come Chris Avellone.

Il 24 Maggio, fra meno di una settimana, il team padovano lancerà per XBox One e PC Unit4, un platformer che rende onore ai grandi titoli del passato,  ma il progetto attorno a cui ruota gran parte del loro lavoro è Alaloth, un action rpg fantasy con vista isometrica, il cui lancio è previsto per il 2018. Abbiamo avuto la possibilità di fare alcune domande ad Alberto Belli, fondatore e CEO di Gamera:

Buongiorno Alberto, qual è il percorso che ti porta fino a Gamera?
Ho iniziato con i videogiochi nel 2001, facendo sostanzialmente tutto il giro della filiera: ho diretto diverse testate specializzate (carta e web) prima di passare al publishing e allo sviluppo, avendo l’opportunità di occuparmi del management di diverse realtà (Milestone, Black Bean e altre dell’ormai defunta Leader) prima ancora di mettere in piedi a diverso titolo aziende che oggi occupano più di un centinaio di persone nel settore (Eurogamer, Forge Reply, Storm in a Teacup). Ho lavorato su prodotti di diverso tipo, da budget molto piccoli a Tripla A di vario genere, principalmente occupandomi di marketing, comunicazione e, in generale, di produzione e business a 360°. Gamera Interactive è semplicemente l’ultimo pezzo del puzzle: è un progetto completamente mio in cui convergono oltre 15 anni di esperienza, per buona parte dedicati allo sviluppo, con obiettivi importanti e un piano di lungo termine di un certo tipo.

Cosa ti ha spinto a fondare un nuovo studio?
Come dicevo sopra, si tratta della fine di un percorso piuttosto lungo e variegato che coincide con un nuovo inizio. Sullo sfondo, tutta una serie di contingenze e le possibilità pratiche ed economiche di costruire qualcosa oggi, dopo lunghe cogitazioni. Fino a qualche anno fa era impensabile immaginare di fare ciò che stiamo facendo oggi. In ogni caso, c’è stato un grosso lavoro a monte, fatto di analisi e infinite sessioni di budgeting e pianificazione. Non è una cosa che si improvvisa.

Com’è composto attualmente il vostro team?
Siamo in hiring ma in Italia è molto complicato trovare profili adeguati per determinati tipi di progetto. Inoltre lo sviluppo è un lavoro che va ben oltre il saper fare la propria parte. Si tratta di montare un team che sappia convivere, tirando fuori il meglio da tutti in periodi di fortissimo stress. La mancanza di esperienza è soprattutto un qualcosa che si riflette nel modo di fare di buona parte dei giovani con cui veniamo in contatto che pensano che tutto poi si riduca ad una buona idea o al prodotto, mentre la realtà è che si tratta di un complesso meccanismo da gestire e indirizzare, dove se salta un ingranaggio si innesca un domino senza fine con pesanti conseguenze. In questo momento siamo in 12 più una decina di collaboratori esterni. Per Alaloth e gli altri progetti in piedi, dobbiamo ragionevolmente raddoppiare ma la problematica, per l’appunto, è che individuare le persone da inserire è un passaggio lungo e faticoso che va incastrato tra le scadenze che comunque abbiamo e che non aspettano noi.

La prossima settimana uscirà Unit4, il vostro primo titolo, come mai avete scelto di realizzare un platform in pieno stile retro sia graficamente che come difficoltà?
Unit 4 non era inizialmente previsto nel nostro piano, ci si è semplicemente presentata un’opportunità e ci siamo strutturati di conseguenza. L’idea era quella di avere sempre un prodotto piccolo con un ciclo di sviluppo breve su cui lavorare parallelamente al main project, Alaloth, che ci terrà occupati per gli anni a venire. Poteva essere qualsiasi altro prodotto ma abbiamo avuto modo di impostare in velocità il lavoro e questo ci ha consentito, soprattutto, di iniziare a lavorare sulla parte corporate di Gamera, dicendo al mondo che esistevamo e che eravamo al lavoro su un primo gioco console, aprendo la strada per Alaloth e per tutta una serie di situazioni che si sono generate proprio grazie a Unit 4.

Sviluppare un platform in pixel art infatti, non è sicuramente un’idea geniale considerandola fine a se stessa: ci sono centinaia di titoli dello stesso genere in giro ma è qui che entra in ballo il discorso strategico e quelle cose che sappiamo fare decisamente bene. Come ho detto ci ha consentito di mettere in moto una serie di dinamiche molto interessanti proprio in virtù del background che abbiamo che ci consente, per fortuna, di avere una visibilità di un certo tipo, di lavorare con partner di un certo tipo e di ragionare in un modo che non è sicuramente quello dell’indie così come lo immaginano gli sviluppatori stessi. Qui c’è un’azienda con dei target molto precisi, che sa fare determinate cose molto molto bene attorno alle quali abbiamo costruito tutto.

A febbraio avete annunciato Alaloth – Champions of the Four Kingdoms, un Action RPG con ambientazione fantasy, puoi anticiparci qualcosa a riguardo?
Purtroppo non ancora, perché con l’estate, l’E3 e la GamesCom in arrivo, tutti gli annunci saranno concentrati in quel periodo. Quel che si può dire, riallacciandoci al discorso precedente, è che il gioco è assolutamente caldo dopo l’annuncio di febbraio e che l’annuncio stesso, già di suo, è un qualcosa di epico per quel che riguarda una produzione indipendente. Diciamo che finire sul sito specializzato più importante del pianeta (ndr IGN.com) , in quel modo, non è una cosa per tutti e vedere il tuo lavoro interessare un magazine così importante come un platform holder o un publisher, è sempre soddisfacente. Poi la differenza tra quelli bravi e quelli meno bravi, passa esattamente tra l’annunciare cose e farle e tra farle come si deve e farle senza un criterio. Diciamo che anche da questo punto di vista, ci sentiamo abbastanza tranquilli. Unit 4 è arrivato alla release in 9 mesi ma un piccolo prodotto non significa avere una produzione semplice da gestire. E di problemi ce ne sono stati tanti, tra la burocrazia italiana e incidenti di percorso vari causati da presunti “professionisti” che bene o male, vanno sempre messi in conto. Nonostante tutto, siamo arrivati all’obiettivo. Alaloth invece è in un momento in cui occorre lavorare su diversi scenari, tenendo i piedi in più scarpe possibili, ipotizzando cose che potrebbero concretizzarsi oppure no. Diciamo che per ora stiamo cercando di capire quale potrebbe essere il percorso migliore da seguire e con chi, continuando a lavorare con un gigante come Chris Avellone, pronti ad ufficializzare anche un altro paio di grossi nomi che ci daranno una mano con lo sviluppo.

I vostri impegni sono focalizzati interamente su questi due titoli o possiamo aspettarci altre sorprese nei prossimi mesi?
Unit 4 verrà probabilmente portato su PlayStation 4 e Switch a un certo momento e comunque la release implica del lavoro anche successivo. Sicuramente rilasceremo un pacchetto di minigiochi competitivi in estate. Di Alaloth sarà detto di più al momento opportuno. In questo momento stiamo lavorando su altri due prodotti console che porteremo poi a Colonia, ancora secretati.

In base alla tua esperienza, quali pensi siano i punti forti e quali i punti deboli del settore in Italia?
Se parliamo di mercato, l’Italia è una realtà consolidata con numeri interessanti. Gli italiani giocano e spendono per giocare. Se parliamo della scena a livello di development nostrano, per me è ancora un deserto e le company virtuose (che funzionano, producono, vendono) sono veramente pochissime. La debolezza è dovuta a una serie di fattori.
In primis, fare impresa qui è un problema già in condizioni normali, figurarsi quando si tratta di videogiochi. Gli studi non hanno accesso al credito, il nostro lavoro per natura è molto rischioso perché nel caso di progetti complessi, i rientri sono sempre e solo in un lungo termine che interessa veramente pochi investitori abituati a ragionare con parametri di industrie diverse. Dal punto di vista del know-how, c’è veramente poco proprio perché per fare videogame, non ci sono mai state troppe possibilità. Il risultato è un calderone di persone che al 90% non hanno un’esperienza vera e diretta, che finiscono spesso a spiegare anche come si fanno cose che in realtà non hanno mai fatto, alimentando un loop malsano di incompetenza che ciclicamente, tra l’altro, brucia chi invece ha le potenzialità per fare bene. Anche se poi con gli strumenti odierni, per fortuna, chi è abituato a lavorare senza aiuti da sempre è semplicemente nella stessa situazione di prima con qualche risorsa in più da sfruttare. Quindi non è un gran problema, anzi.
Il problema è proprio iniziare, essendo veramente in pochi quelli da seguire come esempi virtuosi, in uno scenario che vede invece parecchi improvvisati pronti a dispensare consigli. Il trend oggi per esempio quando non si sanno fare cose è gettarsi nel publishing, senza avere la più pallida idea di cosa sia, intercettando giovani promettenti e dipingendo scenari fantascientifici di numeri e volumi completamente inventati. Eppure tanti giovani si lanciano nelle mani di persone che dicono cose a caso e vengono paradossalmente protetti da un ambiente destrutturato, quando si tenta di smentirli. Pericolosissimo.

Quali consigli daresti ai ragazzi che si apprestano ad affrontare il loro primo progetto nel campo videoludico?
Che il primo progetto sarà probabilmente un fallimento, perché è sbagliando che si fa esperienza. E che siccome c’è già chi un po’ di esperienza l’ha fatta, ascoltare chi ha fallito e sbagliato prima di loro, per non commettere gli stessi errori, è una buona cosa. Considerando poi che qui da noi, al contrario di altri paesi, riprovarci è molto più complicato per una serie di limiti di sistema. Chi inizia deve concentrarsi su cicli di sviluppo brevi, rilasciare e cercare di sopravvivere al primo prodotto. L’ambizione e i sogni vanno benissimo ma fare videogiochi è un lavoro che presuppone un’impostazione molto precisa e per molti versi ancora più certosina rispetto ad altre professioni. Non è il gioco che conta ma il lungo termine. Quello che si dice va poi fatto e va fatto in tempi che possano risultare compatibili con lo scope di progetto, per posizionarsi sul mercato e restare in piedi oltre il platform X o lo sparatutto Y. Ovviamente parlo di chi vuole far questo nella vita. Con gli hobby, ognuno può impostare i discorsi come meglio crede, potendosi permettere anche di sbagliare con molta più leggerezza, ci mancherebbe. Occorre parlare molto di più di fallimenti e molto meno di chi ce l’ha fatta, perché è da lì che si dovrebbe cominciare.