Lo Stato non deve risarcire la vittima di uno stupratore indigente. Così ha deciso il 14 aprile scorso il tribunale di Torino lasciando senza indennizzo la vittima di una rapina e di una violenza sessuale avvenuta una sera del 2011, mentre rientrava dal lavoro, nell’hinterland della città. Non ha pagato il condannato, non pagherà neanche lo Stato, a differenza di quanto invece ha stabilito la Corte d’appello di Milano due settimane prima in un caso simile seguito dagli stessi avvocati. “Ho lavorato tanto su me stessa, per non essere schiacciata da questa tragedia, ora mi sento abbandonata dal mio Stato”, ha riferito la donna all’Ansa.
La notizia del caso è stata pubblicata sulle pagine torinesi de La Stampa. Al termine del processo penale, l’uomo – condannato definitivamente a otto anni e due mesi di carcere – avrebbe dovuto risarcire la sua vittima, ma non lo ha mai fatto perché risulta indigente e, stando in carcere, non ha reddito. Così nel 2015 la vittima – tramite gli avvocati Stefano Commodo e Gaetano Amedeo Catalano del foro di Torino – ha avviato una causa per ottenere l’indennizzo che lo Stato deve versare alle vittime di reati violenti qualora i condannati siano indigenti o latitanti.
Questo sembrava essere il caso. La difesa della donna ha infatti ricordato che lo stupratore condannato è “tuttora detenuto e privo di qualsiasi sostanza visti anche i procedimenti penali”, “impossidente e non ha mai offerto alcuna somma risarcitoria”. Tuttavia queste affermazioni non sono bastate al giudice Anna Castellino. Secondo il magistrato della IV sezione civile è una “presunzione in quanto il fatto che il reo sia detenuto non comporta automaticamente che questi fosse privo di redditi in precedenza o che non sia titolare di crediti, beni mobili o immobili potenzialmente aggredibili”. Lo Stato deve risarcire soltanto quando per la vittima è impossibile “esercitare la pretesa nei confronti del responsabile in quanto incapiente o non identificato” e questo dato doveva essere verificato prima da Roberta e dai suoi avvocati.
Non solo. Finora in Italia si sono consolidate due chiavi di lettura, una più ampia e l’altra, invece, più ristretta secondo la quale questa norma regola l’indennizzo “in situazioni transfrontaliere” all’interno dell’Unione europea: può essere applicata, ad esempio, in Italia su altri cittadini europei, e non agli italiani. “Il Tribunale torinese ha applicato un’interpretazione restrittiva della sfera dei diritti. E per la vittima è diventato impossibile avere un indennizzo o un risarcimento”, spiega l’avvocato Commodo.
Pochi giorni prima, invece, la Corte d’appello di Milano aveva condannato lo Stato a indennizzare madre e figlia, assistite sempre da Commodo e Catalano, vittime di uno stupro di gruppo rispettivamente con 70mila e 150mila euro. Nel ricorso la difesa del governo aveva sostenuto che in base alla direttiva europea non doveva risarcire i cittadini italiani, ma soltanto quelli transfrontalieri, ma per i giudici milanesi “la normativa parla esclusivamente di ‘vittime’ senza mai operare alcuna distinzione in ragione della loro cittadinanza”, altrimenti ci sarebbero “evidenti profili discriminatori”. La corte nega che le vittime debbano cercare il più possibile di riscuotere i risarcimenti dai colpevoli: “L’intento della direttiva è quello di facilitare l’accesso all’indennizzo e soprattutto rimuovere gli ostacoli per il suo ottenimento a vantaggio delle vittime”. Una linea ben diversa dalla sentenza del giudice di Torino, contro la quale gli avvocati Commodo e Catalano presenteranno ricorso.