“Parlare di golpe è ridicolo” avrebbe risposto con un tweet Matteo Renzi, all’inizio della sua ascesa al potere, se si fosse trovato davanti Matteo Renzi dopo la discesa dal potere. La sindrome del colpo di Stato ha contagiato anche lui. Un tempo era esclusiva di Silvio Berlusconi, uno specialista: mezzo colpo di Stato, colpo di Stato intero, non uno ma quattro colpi di Stato, era solito distinguere a seconda delle occasioni nel corso della sua carriera ventennale da resistente in emergenza democratica, per altro oppresso da tenutario della poltrona da capo del governo. Per un certo periodo del golpe ha abusato anche Beppe Grillo. Lo disse, per esempio, per il decreto Imu-Bankitalia – quello delle gomitate tra parlamentari alla Camera – e Renzi lo prese per i fondelli: “Mi pare sia il tredicesimo”.
Napolitano è il #presidenteditutti Parlare di golpe é ridicolo. Adesso il PD ha l’occasione di cambiare davvero, senza paura. Ci proveremo
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 20 aprile 2013
La differenza è che ora, a quattro anni dalle battutine nei confronti di Berlusconi e Grillo, a credere al colpo di Stato è Renzi. “Un disegno eversivo per colpire il mio governo” è il pensiero che gli attribuisce un retroscena della Stampa che il Nazareno – sempre sui blocchi quando c’è da smentire qualche sfogo dell’ex presidente “con i suoi” – non ha smentito. Un ragionamento, quello di Renzi, che si è già diffuso nel partito, tanto che il presidente Matteo Orfini pochi giorni fa ha invitato a guardare non tanto alla pubblicazione dell’intercettazione ma a quello che ha definito “attacco alla democrazia”. Due mosse, secondo il pensiero del leader Pd ricostruito dalla Stampa, hanno “manipolato l’inchiesta” e “fabbricato il falso”: l’ormai celebre scambio di nomi dell’intercettazione attribuita a Tiziano Renzi e soprattutto il passaggio sulla presenza (presunta o meno) di agenti dei servizi segreti nei dintorni degli investigatori coordinati dal pm di Napoli Henry John Woodcock. La telefonata pubblicata dal Fatto preoccupa meno Renzi, anche perché può essere controproducente fare una battaglia su questo. “Io non ne parlo – è il ragionamento di Renzi riportato dal quotidiano di Torino – Altrimenti mi fanno passare per quello che vuole il bavaglio”. D’altra parte anche il direttore di Repubblica Mario Calabresi nei giorni scorsi aveva scritto che il ministro della Giustizia Andrea Orlando può dire che l’intercettazione tra Renzi padre e figlio non doveva uscire, ma non può dire che non andava pubblicato. “Non si può chiedere ai giornalisti di autocensurarsi – ha scritto Calabresi – di farsi carico dell’incapacità delle istituzioni di tenere riservati pezzi di inchieste. Il dovere per chi fa il nostro mestiere è quello di pubblicare tutto ciò che è giornalisticamente rilevante, che può avere un valore per l’opinione pubblica”. Quello che interessa di più a Renzi, tuttavia, è la storia degli 007 che l’ufficiale dei carabinieri ha scritto nella sua relazione: “La necessità di compilare un capitolo specifico inerente al coinvolgimento di personaggi legati ai servizi segreti – ha detto il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, interrogato dai pm di Roma – fu a me rappresentata come utile direttamente dal dottor Woodcock che mi disse testualmente: al posto vostro farei un capitolo autonomo su queste vicende”, un’idea che il carabiniere ha “condiviso”. Proprio su questa “pianificazione eversiva” – continua la Stampa – si concentra il pensiero dell’ex capo di Palazzo Chigi. Anche nei talk-show, com’è capitato a Emanuele Fiano a PiazzaPulita: il problema non è la gestione della Consip, ma le accuse a Scafarto.
Peraltro basta aspettare qualche ora e il retroscena diventa subito ribalta. “Il vero tema non è l’intercettazione” tra lui e il padre, dice alla Scuola politica Pd “Pasolini” di Milano. Piuttosto “il tema è capire se negli ultimi mesi un pezzo delle istituzioni ha fabbricato prove false verso rappresentanti delle istituzioni. Io chiedo la verifica di quello che è accaduto in questi mesi in pezzi delle istituzioni, non dico di non parlarne ma di fare piena luce”.
Chissà quante volte lo ha chiesto anche Renato Brunetta, il capogruppo di Forza Italia alla Camera, che voleva una commissione d’inchiesta sulla caduta del quarto governo Berlusconi, alla fine del 2011, e l’incarico a Mario Monti. Berlusconi andò a dirlo anche in giro per l’Europa. In Italia “non c’è stato un solo colpo di Stato ma quattro – disse il leader di Forza Italia mentre si ricandidava alla guida del Paese, alla fine del 2013 – Il colpo di Stato c’è ogni volta che un Paese non può essere governato dagli uomini eletti dal popolo”. Fu forse la seicentesima volta che Berlusconi parlò di colpi di Stato, progetti eversivi, sovvertimenti della democrazia, ribaltamenti delle istituzioni. Lo disse negli anni Novanta per un incontro tra alcuni senatori dei Ds e l’allora procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli. Lo ripeté dopo l’estate complicata per Noemi Letizia, nel 2009. Lo ha ripetuto cento volte parlando della magistratura: “Sulla nostra democrazia grava un macigno – scandì nel 2010 parlando alla Frankfurter Allgemeine Zeitung – Nella magistratura abbiamo una corrente che agisce in modo eversivo cercando di procedere contro chi è stato eletto legalmente dal popolo”. Arrivò a teorizzare un mega-complotto che partiva da Gianfranco Fini e arrivava ai pm di Milano. “Parte della magistratura è eversiva – gridò pochi mesi dopo – Serve subito una riforma ed è quello che faremo” e invece non fecero. Mentre al Senato si discuteva la sua decadenza da senatore – quando ancora la legge Severino contava qualcosa – avvertì che era “in corso un’azione eversiva che stravolge lo Stato di diritto e la democrazia non c’è più”. Dopo un paio di mesi, quando la decadenza finalmente si votò, precisò che era un “colpo di Stato”, mentre dopo altri 10 giorni definì meglio che era organizzato da parte della magistratura con il Pd. Anche se tra i tanti golpe che ha subito quello che non gli è mai andato giù è stato quello del 2011, quando firmò la lettera di dimissioni, rimise l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E infatti gli rispose Emanuele Fiano del Pd: “Nel 2011 non ci fu nessun colpo di Stato, ma un governo che, progressivamente, stava perdendo la sua maggioranza parlamentare”. Assomiglia alla situazione di Renzi che per il momento non è uscito da Palazzo Chigi per un “disegno eversivo” ma perché ha perso il referendum costituzionale.