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Cuba, l’economia tenta di riconvertirsi. Ma ancora a bordo dei calesse

Croce e delizia dell’economia cubana nel periodo coloniale e post-rivoluzionario, prima del boom turistico, la monocoltura della canna da zucchero alimenta anche oggi, come in Giamaica, la produzione del rum, ottenuto distillando la melassa ricavata dalla bruciatura dei raccolti. Una sorta di marmellata maleodorante, basilare però per produrre il nettare ambito da tutti, parte ancora considerevole del Pil.

Il simbolo del passaggio tra le due epoche è Biràn, borgo rurale lungo il percorso accidentato tra Holguin e Santiago. Qui Angel Castro, immigrato galiziano padre di Fidel e Raul, possedeva ben 6 km di piantagioni. La propaganda sostiene che Fidel prese spunto per il progetto rivoluzionario dalle angherie del padre sui lavoranti haitiani. Presumibilmente, furono proprio i soldi ereditati da questi, morto 42 giorni prima dello sbarco del Granma, a finanziare l’armamento dei barbudos. Il crollo del prezzo dello zucchero nel 1994 decretò la fine della cuccagna e l’inizio del perìodo especial, con recrudescenza dell’embargo Usa, senza il supporto russo a causa del crollo del muro e della fine dell’impero sovietico.

Se L’Avana concentra su di sé la maggior parte degli investimenti esteri, con i cinesi che hanno triplicato i voli d’affari, l’Oriente rimane com’era prima del Nuovo Millennio; anzi, a giudicare dai veicoli, gli stessi degli anni 50, ante rivoluzione: le gloriose Oldsmobile, Ford, Plymouth, miracolosamente circolano ancora con i pezzi di ricambio auto-costruiti dagli ingegnosi proprietari.

Benzina a 83 ottani, la stessa dei mezzi agricoli, l’unica a un prezzo modico, 0,80 Cuc al litro (il peso convertibile, equivale a 25 di moneda nacional e a 1,10 dollari). La 90 solo per le auto riservate a turisti e burocrati. Anche la polizia si muove a bordo di vetuste Lada russe, residuo della vecchia alleanza. Per il resto, i trasporti pubblici sono affidati a calessi trainati da cavalli, asfittici guaguas, i classici autobus cubani dai pestilenziali fumi di scarico e, nelle zone rurali, trattori e camion.

Le comunicazioni Wi-Fi sono monopolio della compagnia Etecsa, con carte prepagate, ma la connessione pessima. I cubani che possono aggirano l’ostacolo attraverso cellulari donati dai parenti all’estero, utilizzando il chip originale ricaricato: così si evitano problemi di connessione e censura ma a costi esorbitanti grazie al roaming. 

Negli ultimi anni, il regime ha deciso di aprire alla piccola imprenditoria privata. Non tanto per le timide pressioni esterne sui diritti umani e il libero mercato, bensì dopo essersi ritrovato sull’orlo della bancarotta, a causa di decenni di ruberie e sperperi della sua nomenklatura – irreggimentata in corporazioni lacerate da perenni lotte intestine – ai fini di accaparrarsi la grande torta del turismo. Di conseguenza, l’impossibilità di garantire a ogni dipendente la libreta de racionamento, che concede ai cubani le scarse razioni basiche di cibo gratuito.

Così nasce la figura del cuentapropista, una sorta di lavoratore autonomo – self-employed – libero da vincoli statali. Barbieri, artigiani, meccanici, che già operavano in proprio illegalmente, hanno la chance di farlo alla luce del sole. Oggi sono 550.000 circa, una cifra che ricalca l’oltre mezzo milione d’impiegati statali messo alla porta su due piedi. Nonostante le tasse che ora si trovano a pagare e la scarsità delle materie prime, costoro muovono a stento i primi passi verso la libera professione.

I cuentapropistas hanno anche la possibilità di riscattare la casa dove abitano, la cui proprietà era statale. A un prezzo ben lontano dalle cifre stellari del mondo “libero” se si considera che uno stabile di due piani a Santiago centro città pagato 18.000 euro, con bollette di acqua ed elettricità che arrivano a 600 pesos nacional – circa 6 euro – mensili. Nella capitale le cifre sono molto più alte, serve l’aiuto esterno. Molti locatari affittano le stanze delle loro case a prezzi modici, 25/35 CUC diari, a quella grossa fetta di turismo composta da coppie squattrinate e turisti single infoiati che cercano la privacy nelle case particular: gli alberghi statali vietano l’accesso alle prostitute cubane, è consentito invece negli all-inclusive dell’Avana che raddoppiano così il costo del pacchetto giornaliero. E questa minoranza un po’ di soldi li fa: il nero è possibile registrando meno notti sul libro mastro.

Solo a Holguin, io ho ricevuto regolare ricevuta nell’albergo dove ho alloggiato. Altrove, zitti e mosca. Fanno lo stesso nei paladares, i ristorantini privati che pullulano a Cuba: il conto per lo più è esibito su pezzetti di carta. Democrazia rinviata in cambio di un piatto di lenticchie? Tutti teniamo famiglia.

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