“È arrivato il momento di ridimensionare il mito del sogno americano, qui spesso s’incontrano gli stessi problemi che ci sono in Italia”. A parlare è Marco Maldera, romano di 34 anni, a New York dal 2009. Ma attenzione, le sue non sono le parole di chi ha vissuto un’esperienza negativa, anzi. Arrivato negli Usa con l’obiettivo di fare una vacanza-studio, Marco è stato travolto dagli eventi e ancora non se n’è andato: “Quando sono partito non avevo ben chiaro se si trattasse di una cosa a breve o lungo termine – racconta -, avevo 24 anni e non sapevo cosa sarebbe potuto succedere”.
Ai tempi studiava Scienze dei Beni Culturali, portava avanti il suo lavoro da pittore e per mantenersi aveva un impiego part-time in un’azienda farmaceutica: “Sono arrivato qui con l’obiettivo di prendere contatti con alcune gallerie, ma poi mi sono reso conto che il mondo della cultura era più accessibile che da noi – sottolinea –, e fin da subito mi hanno proposto di fare alcune mostre ed eventi”.
“Qui si lavora minimo 10 ore al giorno e sei sempre sotto pressione”
Ed è proprio tramite una galleria di Soho che è riuscito a partecipare a un premio molto prestigioso presso il Museo del Louvre, che poi ha vinto: “Quel riconoscimento mi ha permesso di ottenere un visto lavorativo di tipo artistico – ricorda -, così ho deciso di sfruttare quell’occasione e di introdurmi nell’ambito dell’audiovisivo, un altro sogno che coltivavo da parecchio tempo”.
Anche in questo caso Marco ha trovato una porta aperta: “Sono entrato in una delle più importanti aziende di postproduzione, The Mill, dove mi hanno formato partendo da zero per farmi diventare un esperto di effetti speciali digitali”. Dopo un po’ ha deciso di intraprendere la strada da freelancer e oggi lavora per film e serie tv di successo (come Limitless e 13 reasons why): “Sono soddisfatto di quello che ho fatto finora, gli Stati Uniti mi hanno regalato molte opportunità e in Italia probabilmente non sarei riuscito a costruirmi un portfolio di questo tipo, ma in un progetto di vita a lungo termine non so se mi vedo ancora qui”, ammette.
Nonostante il lavoro sia dinamico e stimolante Marco ha capito che la qualità della vita non è comparabile a quella italiana: “Qui si lavora minimo 10 ore al giorno e sei sempre sotto pressione – ammette -, per avere quello che noi consideriamo uno stile di vita medio, a New York devi guadagnare centinaia di migliaia di dollari”.
“Ho visto tanta gente andare avanti più per la simpatia da parte del capo che per il talento”
Per questo ai tanti giovani che gli scrivono per sapere se davvero l’America è la terra in cui tutto è possibile, lui risponde così: “Resto dell’opinione che gli Stati Uniti vadano bene per farsi un’esperienza più o meno lunga – sottolinea -, ma vivere qui è molto impegnativo. Il livello di competizione è molto alto e la qualità della vita bassa e stressante”. E anche il mito della meritocrazia presenta più di qualche falla: “Ho visto tanta gente andare avanti più per la simpatia da parte del capo che per il talento – ricorda –. D’altronde qui, nel mondo degli affari, va forte il motto ‘Lavora solo con la gente che ti piace’”.
L’Italia, spesso bistrattata e relegata a fanalino di coda, per Marco ha ancora moltissimo da dare: “Essendo un Paese piccolo è ovvio che abbia meno lavoro da offrire nel mio settore, ma dal punto di vista della creatività e del talento non abbiamo nulla da invidiare agli Usa – sottolinea –. È ora che università e industrie comincino a investire sulla formazione dei giovani”. Lui, al momento, sta iniziando a progettare un riavvicinamento: “Mi piacerebbe inserirmi nell’ambito audiovisivo italiano e magari riuscire a lavorare tra l’Italia e gli Stati Uniti – spiega -, se si presentasse l’opportunità giusta per avere la base nel nostro Paese, vicino alla mia famiglia, non ci penserei su nemmeno un attimo”.