Non avrei mai voluto scrivere queste righe sapendo della scomparsa di Chris Cornell, chitarra e voce dei Soundgarden. Il senso di vuoto e tristezza che ha lasciato è incolmabile. La sua morte (dopo quelle di Andrew Wood dei Mother Love Bone,  Kurt Cobain dei Nirvana, Layne Staley degli Alice in Chains, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots) segna la fine di un’epoca, marchiata a fuoco da quella che esperti e critici del settore hanno chiamato “grunge” (letteralmente “sporcizia”), termine con cui è stato designato un genere di musica rock prodotto a Seattle, stilisticamente assai eterogeneo (con influenze che spaziano dall’hard rock alla psichedelia al punk), che ha avuto una diffusione su scala mondiale e ha raggiunto il successo commerciale con band quali Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains e Stone Temple Pilots.

Una musica che ha avuto lo stesso impatto dirompente del punk, alla cui attitudine sporca, irriverente e stradaiola si richiama, ma che ha cercato di recuperare anche il meglio dell’hard rock anni Settanta (Led Zeppelin e Black Sabbath in primis). Non è un caso che la stampa americana assegnerà ai Soundgarden l’appellativo di “Led Sabbath”, definizione perfettamente calzante, dato che in loro ritroviamo molto dei Black Sabbath (nelle atmosfere cupe, oscure e ossianiche) e dei Led Zeppelin (soprattutto nella voce di Chris Cornell, l’unica a reggere il confronto con l’ugola di Robert Plant).

Ma non bastano queste coordinate a definire con precisione i confini entro i quali si muove la musica del quartetto, allora formato da Chris Cornell (voce), Kim Thayil (chitarra), Hiro Yamamoto (basso), Matt Cameron (batteria). Bisogna aggiungere anche le influenze della psichedelia, della new wave, del noise (soprattutto quello newyorkese dei Sonic Youth) e una certa attitudine sperimentale, per avere più chiaro il quadro e considerare del tutto ingiustificate le critiche di revivalismo spesso rivolte ai Soundgarden.

Formatisi nel 1984 a Seattle, esordiscono con un debutto di sei brani, Screaming Life Ep (1987), ancora acerbo ma già abbastanza esplicativo della loro incontenibile potenza tellurica: un magma sonoro che investe l’ascoltatore attraverso la chitarra lancinante di Thayil, il basso cavernoso di Yamamoto e le straordinarie doti vocali di Cornell. Ma è con il successivo primo album, Ultramega OK (1988), che la musica del quartetto sarà più a fuoco. Il suono si fa più robusto e corposo e allarga il suo spettro stilistico, facendo confluire reminiscenze metal, sussulti punk, tempestosi vortici psichedelici e infuocati riff acid blues. Sono evidenti le straordinarie doti tecniche del quartetto, superiori a quelle di altre band coeve.

Oggi quell’album “di culto” viene ristampato dalla storica etichetta di Seattle Sub Pop e remixato dal “guru” della scena Jack Endino. È un cerchio che si chiude. La scaletta è arricchita di sei demo di altrettanti pezzi del disco, versioni più ruvide e grezze degli originali. Il remixaggio conferisce ai brani una resa sonora migliore, ma senza nulla aggiungere alla sostanza di un disco che ha nei ricami chitarristici di Thayil e nell’impressionante registro vocale di Cornell tutta la sua forza devastante. Sarà però con i successivi Louder than Love (1989), Badmotorfinger (1991) e soprattutto con il capolavoro Superunknown (1994) che il suono dei Soundgarden raggiungerà la piena maturità espressiva. Ma questa è già un’altra storia.

Flower, il brano d’apertura di Ultramega Ok
Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Musicgate 2.0, plagi discografici nella musica classica. Una nuova epidemia intellettuale?

next
Articolo Successivo

Dardust, quando il piano incontra l’elettronica nord-europea: ‘un viaggio cinematico’, che fa bene

next