Cinema

Indizi di Felicità, Walter Veltroni si conferma la Barbara D’Urso del documentario italiano

Si chiama “metodo Walter Veltroni” e consiste nel mettere di fronte alla macchina da presa vecchietti, vittime di qualche disgrazia, persone traumatizzate con ricordi dolorosissimi, e poi farli piangere. Il nuovo documentario diretto da Veltroni, Indizi di felicità (in sala solo il 22-23-24 maggio 2017) segue l’altrettanto discutibile I bambini sanno (lì le vittime dell’impellente rovello etico erano i bambini) ed è impastato con gli stessi ingredienti del metodo suddetto. Una ventina gli intervistati seduti davanti all’obiettivo del regista ex vicepresidente del consiglio. Si va dal reduce di un campo di concentramento ad una superstite dell’11 settembre, dall’anziana staffetta partigiana alla coppia di ex hippie che hanno avuto un figlio disabile. Tutti però devono sottostare alle ciniche regole del “metodo”: Veltroni ti abborda, poi ti viene a riprendere con un bel service di luci e trucco, e appena il testimone si è messo a proprio agio, si è tutto bello accoccolato comodo (“è Veltroni, male non me ne farà”), mentre è lì che sta raccontando episodi della propria vita, ecco che l’Errol Morris di Cinecittà azzanna la preda: cos’è per lei la felicità? Chiaro che per un ultra ottantenne, con un passato tragico, ferite nell’anima e nel corpo (e qui in Indizi di felicità ce ne sono tanti) è come una pugnalata nel cuore.

Parte il magone, singhiozzi, bocche tremanti, lacrime. Gli intervistati cercano un fazzoletto, si soffiano il naso, si asciugano gli occhi, chiedono di fermarsi, ma Veltroniva avanti. Tutto ripreso e montato nella versione definitiva (quando c’è stato tempo per tagliare, almeno la richiesta di non procedere), tutto in primo piano (o mezzo busto), spia accesa sugli occhi che si inumidiscono. La Barbara d’Urso del cinema documentario italiano non lascia scampo a nessuno. Walter e la lacrima, Walter e il dolore. Si accettano già tesi di laurea in scienze della comunicazione sul tema. Non pago dei singoli testimoni, l’ex sindaco di Roma, esige il tributo di gruppo, la rimpatriata alla C’è posta per te. In mezzo alla scelta “casuale” di un anziano ex operaio di una fabbrica di bibite e un giovane surfista, ecco sbucare l’allegra brigata di vecchietti che hanno fatto da maestranze di qualità nel cinema italiano del boom. Null’altro che un pretesto per il solito richiamo a Pasolini, a Fellini, al sogno del cinema che non c’è più (infatti oggi c’è Indizi di felicità). Walter li fa incontrare ad un giardinetto dopo decenni e filma. Poi quando la risposta non arriva è qui che si afferma la coercizione del “metodo” Veltroni, Walter imbecca e impone pure la sua risposta al posto di quella dei protagonisti.

Geniale e spaventoso nella sua rigidissima programmaticità come nemmeno il più pervicace Michael Moore, Veltroni fa trasparire con evidenza la totale mancanza di sorpresa nel proprio sguardo, l’assenza dell’imprevisto (citiamo un grande affabulatore e mistificatore come Herzog), e del farsi discorso poetico mentre si riprende il dato documentabile. Attività, invece, rivolta tutta a favore di una “documentazione” prevista e prevedibile, volta ad affermare un principio/obiettivo generale prestabilito (leggasi: commozione ed esibizione del dolore). Pensiamo al lungo devastante elenco di tragedie dell’umanità negli ultimi anni che apre il documentario: fiumi di sangue, bimbi feriti, lamiere contorte. Frammenti blob provenienti da guerre ed attentati. Il tutto per dire cosa? “Dopo tutto questo orrore come si fa ancora ad essere felici?”. O ancora: la sovrabbondanza di frati (moderni, in camicia, non button down però) intervistati che culmina nel seminarista tifoso della Sampdoria, sintesi politica cattocomunista di un progressismo petaloso nelle parole e forsennatamente cinico nel “metodo”. Si pensi a quel lungo take su Sami Modiano, sopravvissuto al campo di concentramento, che ricorda la morte della sorella e del padre ad Auschwitz, una roba da brividi, oltretutto non “esclusiva” veltroniana (come poteva essere la signora sopravvissuta al crash del 9/11), ma che in quella collocazione finale, dopo decine di esempi, dopo litri di lacrime, dopo tante interpellazioni dove sembra che la risposta alla domanda “che cos’è la felicità per lei?” interessi davvero pochino al nostro, ecco che segue una sequenza di tangheri che ballano in una fabbrica dismessa come in una pubblicità delle cucine Febal. Veltroni ed Indizi di felicità sono questa sintesi cinematografica politica e morale qui. Niente di più. Se non con abbondanti scorte di fazzolettini. Per gli intervistati.