“Sono venuto in questa sacra e antica terra per riaffermare i legami invincibili tra noi e Israele”. Sono le prime parole pronunciate da Donald Trump al suo arrivo in Israele. Poco prima il presidente israeliano Reuven Rivlin aveva detto: “Lei è il presidente del più importante alleato di Israele”. Come previsto, la visita di Trump a Gerusalemme inizia con l’espressione della più esplicita comunanza di interessi e di un calore che gli otto anni di presidenza di Barack Obama avevano incrinato.

L’assoluta sintonia diplomatica è continuata anche nelle fasi successive della visita. Dopo che, alcuni giorni fa, Trump aveva riaffermato il suo impegno per la soluzione dei due Stati, il premier Benjamin Netanyahu ha spiegato che “Israele condivide l’impegno del nuovo presidente per la pace e porge la mano ai palestinesi”. Trump è tornato, nel suo colloquio col primo ministro israeliano, sulla vicenda dei segreti di intelligence rivelati ai diplomatici russi durante l’incontro alla Casa Bianca. “Non ho mai fatto il nome di Israele come fonte delle nostre informazioni”, ha detto Trump. Entrambi i leader si sono anche affrettati a indicare il nemico comune: l’Iran. “L’Iran fomenta una terribile violenza e Stati Uniti e Israele sono concordi nel pensare che l’Iran non debba possedere armi nucleari”, ha spiegato il presidente Usa.

A prima vista, l’accordo tra i due storici alleati sembra dunque totale. A ben vedere però, anche queste prime ore del viaggio di Trump in Israele mostrano impercettibili differenze. Al ministro dell’Educazione, Naftali Bennett, che gli ha detto: “ci aspettiamo che lei sia il primo presidente che riconosca una Gerusalemme unificata sotto la sovranità israeliana”, Trump ha risposta con un vago: “E’ un’idea!” Proprio in queste ore il segretario di stato Rex Tillerson si è rifiutato di dire che il Muro Occidentale si trova in Israele. E, nonostante continui a ripetere che ci si trova di fronte a una straordinaria opportunità per arrivare a “un accordo finale” che porti a una pace regionale, Trump non ha per il momento svelato nulla delle sue future mosse.

Il fatto è che il viaggio di Trump in Israele presenta più zone d’ombra – e rischi, soprattutto per Israele – di quanto a prima vista possa sembrare. E’ vero che questo viaggio ha per l’amministrazione americana un valore particolare. Da mesi il genero di Trump, Jared Kushner, lo prepara con cura. Le due diplomazie ci stanno lavorando in modo da dargli un valore non semplicemente diplomatico o politico. La visita di Trump allo Israel Museum, martedì, ha proprio lo scopo di fare quello che Barack Obama non ha mai fatto davvero: parlare all’opinione pubblica israeliana, rassicurarla sull’appoggio incondizionato statunitense.

Il viaggio in Israele arriva poi dopo il viaggio in Arabia Saudita, durante il quale Trump ha espresso posizioni che non possono non piacere a Netanyahu; anzi, si tratta di idee e suggestioni che avrebbe potuto esporre lo stesso Netanyahu. Trump ha per esempio invocato un’alleanza del mondo arabo sunnita contro l’Iran; ha messo sostanzialmente sullo stesso piano lo Stato Islamico, al Qaeda, Hezbollah e Hamas; è tornato a fare del terrorismo, e della paura, il fulcro della politica estera americana nell’area.

Il messaggio non può, appunto, che piacere a Netanyahu e alla destra israeliana; è un messaggio che, come hanno mostrato diversi commentatori, cancella ogni preoccupazione di violazione dei diritti umani nei Paesi del Golfo e fa dell’Iran il vero “villano” dell’area; un messaggio che fa della questione del nucleare iraniano e delle varie ramificazioni dell’islamismo radicale la minaccia più forte. E’ esattamente quello che Obama si era rifiutato di fare e che aveva precipitato i rapporti tra Stati Uniti e Israele al punto più basso nella loro storia.

Tutto bene per il governo israeliano, dunque? Non proprio. Il discorso che Trump ha rivolto al mondo arabo in Arabia Saudita nasconde infatti alcune cose poco gradite a Gerusalemme (che sicuramente verranno nascoste nelle celebrazioni delle prossime ore, ma che non per questo smettono di essere vere). A Ryad, Trump si è per esempio dimenticato di menzionare Israele tra i Paesi che hanno sofferto del terrorismo. Più importante ancora, ha fatto soltanto una breve menzione alla pace israelo-palestinese e l’ha comunque inserita nell’ambito di una “cooperazione tra le tre religioni monoteistiche”.

Proprio la questione religiosa è stata rilanciata con un fervore inatteso nel discorso di Trump a Ryad. La parola “Dio” è stata pronunciata per ben nove volte nel discorso di Ryad. Trump ha invitato a pregare per la pace, ha citato i Children of God e ha peraltro fatto di tutto per visitare i luoghi sacri delle tre religioni monoteistiche (Arabia Saudita, Israele e infine Roma). Questo fervore quasi biblico può fare buona impressione sugli evangelici americani ma sicuramente non ottiene altrettanto favore nella destra di Gerusalemme, per cui i diritti del popolo ebraico sulla terra di Israele non possono essere frutto di una contrattazione tra le parti, in particolare tra i rappresentanti delle tre religioni monoteistiche.

C’è poi un’altra verità spiacevole per Israele che il discorso di Ryad rivela. Senza farvi diretto riferimento, Trump ha sostanzialmente rilanciato il tema dell’America First, della scelta di una politica estera americana che abbandona ogni ambizione di fare il guardiano del mondo e si concentra sull’interesse primario americano. E l’interesse primario americano, ha fatto chiaramente capire Trump, è a questo punto soprattutto la lotta al terrorismo e non la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Le prossime ore potranno quindi svelare nuovi piani o spiegare meglio le posizioni. Per il momento, sotto l’espressione dell’amicizia più calda, a Gerusalemme si fa largo un timore: che Israele non sia più così centrale per gli interessi americani.

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