Alla scuola politica del PdR, intitolata senza imbarazzo a Pier Paolo Pasolini, quella che forma le nuove promesse del partito che hanno come bussola l’impareggiabile percorso di Maria Elena Boschi e dunque sono già in direzione come la diciannovenne Arianna Furi, Matteo Renzi doveva dire qualcosa di particolarmente memorabile su Consip o meglio contro l’inchiesta, tacendo tenacemente sui fatti.
Ai giovani che ambiscono all’onore di sedere prima o poi accanto a personalità come Ernesto Carbone, Alessandra Moretti o Micaela Campana, quella che ai pm di Mafia Capitale ha risposto 39 volte “non ricordo” e inviava baci al “grande capo” Salvatore Buzzi, il segretario del partito ha ritenuto di non dare nemmeno qualche parvenza di risposta sull’affollamento e l’attivismo di parenti ed amici targati “Giglio Magico” attorno a Consip e Banca Etruria. E tanto meno ha ritenuto di entrare nel merito per fugare gli elementari dubbi che suscitano anche nell’ascoltatore ben disposto alcuni passaggi cruciali della conversazione tra lui e il padre alla vigilia dell’interrogatorio di Tiziano Renzi, indagato per traffico di influenze. La pubblicazione della telefonata, scandalosa in quanto “illegale“, viene evocata solo per parlar d’altro, per additare il presunto dibattito sulle intercettazioni come “arma di distrazione di massa” e per mettere sul banco degli imputati, pur senza nominarli direttamente, il pubblico ufficiale del Noe Scafarto, “il braccio” che ha compiuto materialmente le presunte falsificazioni, e più ancora “la mente” il Pm anticamorra, Henry Woodcock, che le avrebbe commissionate.
Il duo di “malfattori” che rappresenta, mutatis mutandis, una riedizione aggiornata della coppia diabolica De Magistris-Genchi contro cui si era scatenata tutta la filiera partitico-mediatica ai tempi di Why Not, viene accusato senza perifrasi dall’ex presidente del Consiglio di essere “un pezzo delle istituzioni che fabbrica prove false contro rappresentanti delle istituzioni”. Non importa che riguardo alla telefonata tra Renzi jr e Renzi senior, a caldo, lo stesso Matteo avesse esultato per “l’autogol” dei “manettari” del Fatto e si fosse autocompiaciuto per la bellissima figura di figlio che incita il padre maneggione a dire la verità, tutta la verità anche se si guarda bene dall’approfondire il riferimento a Luca, presumibilmente Lotti tuttora ministro, chiamato da lui in causa senza dare alcuna spiegazione.
Ma il fatto che Renzi e tutta la sua “magica” costellazione facciano a gara a chi la spara più grossa per dimostrare che il Pd non è succube del “giustizialismo” denunciando con parole di fuoco “il complotto in atto” (il segretario), “l’attacco alla democrazia” (Matteo Orfini, il presidente), “l’accanimento giudiziario” (Gennaro Migliore, il sottosegretario alla giustizia), “il dolo di una strategia concepita a tavolino” (Alessia Morani, vicecapogruppo già responsabile giustizia del Pd) non è solo una riconferma delle affinità con l’ex sodale del Nazareno ma anche una buona premessa per il dopo voto. Non a caso in questi giorni ci sono indizi sempre concreti sull’intesa Pd-FI per una legge elettorale che li “costringerebbe” ad un governo di coalizione.
In questo contesto è davvero molto difficile immaginare che Matteo Renzi, a parole sempre aperto a qualsiasi confronto, accetti la sfida che gli ha lanciato, anche dal salone di Torino Marco Lillo autore Di padre in figlio, diventato oggetto di attacchi concentrici a prescindere dal contenuto, e cioè dai fatti, da parte del mondo dell’informazione non meno che dalla politica.
Ma più ancora delle reazioni politico-mediatiche che sono ormai da molto tempo omologate e spesso indistinguibili nei confronti dei giornalisti e ancora di più dei magistrati “troppo zelanti”, a sconcertare sono le non reazioni o le condanne più o meno implicite da parte delle istituzioni, dei colleghi, delle associazioni di categoria e dell’organo di autogoverno, come ha rilevato in una solitudine più assoluta del solito Marco Travaglio sul Fatto di domenica 21.
Il riferimento è al trattamento riservato a Woodcock, già oggetto del procedimento disciplinare da parte del Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo (non prepensionato a differenza di molti coetanei) e che i renziani vorrebbero a tutti i costi mettere sotto la lente degli ispettori ministeriali. Intanto, mentre il Csm prende tempo si è pronunciato il vice presidente Giovanni Legnini (Pd) in un’intervista molto rilassata con il sempreverde Giovanni Minoli affermando che responsabili della fuga di notizie sono sempre i pm o la polizia giudiziaria, con la postilla, non irrilevante che “anche quando è responsabile la polizia giudiziaria c’è una sorta di silenzio assenso da parte dei pm che procedono”.