Come si fanno le leggi in Italia? Prendiamo quest’ultimo esempio di prosa legale: “Chiunque, con più atti di violenza o di minaccia, ovvero mediante trattamenti disumani o degradanti la dignità umana, ovvero mediante omissioni, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale […] la pena è la reclusione da quattro a dodici anni”.

Alzi la mano chi riconosce il reato di tortura, che l’Italia s’era impegnata a introdurre sin dalla Convenzione del 1984: dove l’autore del reato non era “chiunque”, come qui, ma “un agente della funzione pubblica”. Glissiamo su quel “degradanti la dignità umana”, dove a essere torturata è la lingua italiana, con il participio riferito alla dignità, come se “disumani e degradanti” non bastasse. Asteniamoci pure, già che ci siamo, dal metterci nei panni di un giudice il quale dovesse mai decidere se il caso di uno psicanalista che cagioni acute sofferenze psichiche a un paziente, facendo emergere i suoi traumi infantili, rientri o meno nella definizione di tortura proposta dalla legge.

Pensiamo, piuttosto, a come dev’essere stato scritto questo testo, che ha ottenuto al Senato 195 voti favorevoli, 8 contrari e 34 astenuti: provocando l’esultanza del capogruppo Pd in commissione Giustizia, Giuseppe Lumia, per la “larghissima intesa”. Il senatore giunge a vantare come un successo proprio la palese violazione della Convenzione. Questa chiedeva solo di punire i torturatori statali? E, per non dare l’impressione di avercela con la polizia, la legge chiede di punire “chiunque”: maestre d’asilo, infermieri, badanti, lo psicanalista di cui sopra, tutti noti torturatori. Il senso della legge, così, potrebbe riassumersi in questo slogan: torturiamo meno, torturiamo tutti.

Un testo del genere, m’immagino, dev’essere stato scritto come la famosa lettera di Totò e Peppino alla malafemmina. Uno del Pd, in Commissione giustizia, deve aver detto a uno di Forza Italia “carta, penna e calamaio”, e poi deve avergli dettato: “acute sofferenze fisiche e psichiche a una persona privata della libertà personale”. E quello di Fi: “Ma allora è vero che ce l’avete con i poliziotti! E quello del Pd: “Oddio, allora aggiungici anche ‘affidata alla sua custodia’”. E poi, in crescendo: “Ma anche ‘autorità’; e pure ‘potestà’; e ‘cura’, certo; e ‘assistenza’, perché no?; e ‘minorata difesa’, evvai”. E quello di Fi: “Ma non sarà troppo?”. E quello del Pd: “Massì, abbondiamo. Che sennò pensano che siamo provinciali”.

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