Fosse ancora vivo Giovanni Falcone avrebbe 78 anni. Sarebbe come un nonno. E in qualche modo lo è per tanti giovani che l’hanno conosciuto attraverso i libri. Chi è nato nel 2000 non sa molto di questo magistrato, ucciso a 53 anni, il 23 maggio 1992 sull’autostrada che porta dall’aeroporto Punta Raisi a Palermo. Chi era questo magistrato che da bambino amava giocare a ping-pong e che da piccolo si faceva leggere I tre moschettieri? Nel suo ufficio bunker del Tribunale di Palermo ci sono ancora le paperelle che collezionava e che l’amico Paolo Borsellino gli nascondeva ogni volta che partiva.

A chi non l’ha mai conosciuto, a chi non ha mai letto niente di lui, abbiamo deciso di farglielo conoscere attraverso la testimonianza di tre persone: il collega magistrato Ignazio De Francisci, oggi procuratore generale a Bologna; Giovanni Paparcuri, l’uomo che Falcone e Borsellino vollero accanto nel 1985 per informatizzare il maxiprocesso, e Giuseppe Costanza, l’autista sopravvissuto alla strage di Capaci. A loro tre abbiamo chiesto di raccontare Falcone a un ragazzo di 10 anni.

Ignazio De Francisci, il collega allievo – “Credeva molto in quello che faceva, aveva intuizioni geniali che ha portato avanti in un mondo ostile. È riuscito a superare vari livelli di difficoltà come in una serie di caccia al tesoro continua. Per il metro di giudizio umano ha perso perché è stato ucciso da Cosa Nostra, ma l’effetto delle sue idee si vede ancora oggi. Era molto serio nel suo lavoro, lo faceva studiando. Oltre al lavoro tecnico del giudice istruttore, approfondiva i problemi internazionali perché nel nostro lavoro nulla si improvvisa.

Se penso a Falcone mi viene in mente quando durante un viaggio di lavoro negli Stati Uniti con lui venne accolto con tutti gli onori, cosa che gli americani non fanno per nessuno. Dopo una cena con i colleghi dell’FBI tornando in albergo mi disse: “Vedi? Alla fine lo Stato vince”. Io sono pessimista, lui forse lo era più di me, ma era stato capace di vedere il lato positivo in quello che faceva e alla fine di quel viaggio era felice perché il nostro Stato tramite queste missioni vinceva. Vorrei che fosse vero e lo è nella misura in cui oggi molti mafiosi sono in carcere. Noi vorremmo la vittoria stile calcistico, 90 minuti e si vince ma la vittoria nella lotta alla mafia si vede in tempi più lunghi. Il 23 maggio 1992 come uomo Falcone ha perso perché è stato ucciso, ma oggi dopo 25 anni parliamo ancora di lui”.

Giovanni Paparcuri, l’uomo di fiducia – “Falcone era una mosca bianca, nessuno sarà mai come lui. Prima che giudice era un uomo tutto d’un pezzo con un altissimo senso dello Stato. Dotato di nervi d’acciaio. E quando sento dire che lo paragonano a Tizio o Caio mi viene da ridere. Non era un forcaiolo: se doveva arrestare qualcuno lo faceva soltanto se le prove avrebbero retto anche in dibattimento, rispettava anche gli imputati e in un certo qual modo il loro ruolo; magari offriva loro qualche sigaretta, ma, ripeto, mai oltre. Aveva rispetto anche dei capi con cui non andava d’accordo. Non aveva un carattere facile, a volte era burbero ma se entravi nelle sue grazie, a modo suo, ti voleva bene, e te lo faceva capire con gli sguardi o con un sorriso; non amava le sviolinate; odiava i “lecchini” e i ruffiani e non sopportava le prese in giro.

A volte si intrometteva quando guidavo (gli ho fatto anche da autista) dicendomi di rallentare e/o di non seguire la volante che ci precedeva, ma non mi arrabbiavo, né gli dicevo nulla, era così. Nemmeno lui si arrabbiò quando una volta presi un cordolo di petto e stavamo per ribaltarci, anzi, mi fece coraggio con una delle sue battute. Era riservato: anche quando ti difendeva prendeva posizione sempre dietro le quinte e mai platealmente, infatti anche se ero io il motivo del contendere, da lui non sapevo mai nulla; erano i colleghi a riferirmelo oppure lo leggevo da atti formali. Mi ha difeso anche davanti al Consiglio superiore della magistratura.

Non si è mai si intromesso nel mio nuovo lavoro, a volte mi faceva trovare dei bigliettini con scritto: “Parlarne con Paparcuri”. Ti rendeva protagonista e noi lo seguivamo anche per il carisma che emanava. Potrei fare mille esempi ancora, ma sfido chiunque al suo posto che doveva combattere giornalmente una guerra tremendamente complicata e non solo contro Cosa Nostra, ad avere un carattere non difficile. Quando incontro i ragazzi, dico loro che le battaglie le vincono i soldati, ma i meriti se li prendono i generali, ma il mio generale, Falcone, se riteneva che un determinato lavoro cui mi aveva affidato lo avevo portato a termine con ottimi risultati, mi dava i giusti meriti, anche con un semplice grazie o con un sorriso. Era un uomo che amava il mare, nuotare, la musica, l’amicizia, la lealtà, il dovere”.

Giuseppe Costanza, l’autista amico – “Ad un bambino vorrei raccontare la verità: Giovanni Falcone è l’uomo che ha dato la vita per il nostro Paese. Ma nessuno pensi che era un eroe, ma un uomo che amava scherzare, gioire. Era uno come noi, non un extraterrestre. Una volta in macchina mi caddero delle monetine e lui mi disse: ciò che è in quest’auto è mio e se le prese. Amava molto scherzare. Un aneddoto: un giorno in auto si mise a fumare il sigaro. Non sopportavo più quell’odore al punto da dirgli: “Guarda o spegni il sigaro o scendo io”. E lui mi rispose: “Questo serve per uccidere moscerini e zanzare”. Ma è bello anche raccontare a chi non lo conosce che amava il mare: con lui andavamo spesso in piscina la mattina presto”.

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