La settimana scorsa il post sulla ricerca architettonica e artistica dell’associazione Incompiuto Siciliano ha prodotto una positiva attenzione sul fenomeno delle opere incompiute, più o meno grandi, che crivellano il nostro paese. La campagna di crowdfunding, lanciata dall’associazione, ha ricevuto un discreto impulso, raggiungendo gli obiettivi che si era prefissata. E la generosità di chi legge e di coloro che contribuiscono a questo blog con la discussione e la critica mi conforta: posso sperare che i miei post porgano argomenti di servizio non del tutto inutili in tema di ambiente e società.
Il referendum svizzero sull’energia nucleare, con cui quasi tre cittadini su cinque hanno stabilito di chiudere progressivamente il nucleare a favore di tecnologie rinnovabili, mi ha ricordato un’altra incompiuta italiana. Eppure il nostro paese è stato un precursore: la stessa decisione fu presa vent’anni fa, nel 1987. Soltanto che abbiamo declinato l’avverbio “progressivamente” in modo del tutto originale.
Abbiamo iniziato a pensare alla chiusura del ciclo nucleare almeno dieci anni dopo il referendum del 1987, un’operazione iniziata alla fine degli anni 90 con la nascita della Sogin, la società di Stato operativa dal 2001 e responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi; ivi compresi quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare, un’attività svolta per garantire la sicurezza dei cittadini, salvaguardare l’ambiente e tutelare le generazioni future. E la Sogin costa agli italiani (in bolletta) più di 200 milioni l’anno, come riporta l’ultimo bilancio disponibile.
Più volte i lettori avranno udito sussurri e grida sui vari avanzamenti (e arretramenti) della procedura per localizzare, realizzare e gestire il Deposito Nazionale, un’infrastruttura ambientale di superficie, dove mettere in sicurezza tutti i rifiuti radioattivi che, secondo quanto afferma la stessa Sogin, è «un diritto degli italiani e un’esigenza del Paese». In fondo, si tratta di piazzare alcune migliaia di metri cubi di rifiuti radioattivi, un quinto dei quali ad alta attività, già prodotti; e di trovare una sistemazione alle altre migliaia che verranno prodotte nei prossimi quarant’anni. Altri paesi, anche latini, lo hanno fatto o lo stanno facendo in Depositi Nazionali di superficie, perfino la Spagna ci prova. L’Italia no.
In pratica, il Deposito, imposto a ogni Stato membro dalla Direttiva Europea 2011/70 Euratom, è una emergenza costantemente subordinata ad altre emergenze, soprattutto elettorali. Nessuno ha finora avuto il coraggio di srotolare la famosa «Carta delle aree potenzialmente idonee» a ospitare il Deposito, che fu già predisposta dalla Sogin durante la precedente gestione, giacché potrebbe scatenare la reazione dei cittadini (ed elettori) eventualmente interessati in quanto residenti da quelle parti. E, per di più, la classe politica che, dal 2025 in poi, dovrà sborsare un bel po’ di quattrini ad altri paesi compiacenti come Francia e Regno Unito, sarà la stessa classe politica – nazionale o locale – di oggi? Nel dubbio, quella attuale procede con i piedi di piombo, doverosi in questa materia.
L’unica novità che ho appurato casualmente in questi giorni è la chiusura dell’Osservatorio per Chiusura del Ciclo Nucleare, detto Occn, di cui facevo parte da tre anni, perdendone però le tracce da un anno circa. Era un organismo indipendente composto da una decina di esperti di varie discipline, tra cui il rischio idrogeologico e ambientale. Costoro avrebbero dovuto svolgere un ruolo di garante della trasparenza scientifica delle procedure, con l’obiettivo di contribuire a una corretta informazione scevra da condizionamenti, approfondendo gli aspetti tecnici e tecnologici, nonché le implicazioni economiche, sociali e ambientali delle attività di bonifica dei siti nucleari e di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. Era una iniziativa, promossa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, di natura “elettiva” vulgo volontaristica. Perciò non devo rimpiangere l’unica “chiusura” che si è finora realizzata.