Il giovane, condannato a 16 anni, chiede la revoca della sentenza per "errore di fatto" sostenendo che i giudici dell’appello dovevano riascoltare i testimoni assunti come fonti di prova in primo grado. Non farlo - a dire del condannato - ha portato a una condanna "frutto di un processo non equo"
Tramontata qualche mese l’ipotesi di chiedere la revisione del processo, Alberto Stasi ha presentato un ricorso straordinario contro la sentenza emessa dalla Cassazione il 12 dicembre 2015 con cui è stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007 nella sua villetta di via Pascoli a Garlasco (Pavia). In base all’articolo 625 bis del codice di procedura penale, Stasi chiede la revoca della sentenza per “errore di fatto” sostenendo che i giudici dell’appello dovevano riascoltare i testimoni assunti come fonti di prova in primo grado. Non farlo – a dire del condannato – ha portato a una condanna “frutto di un processo non equo”. Un “errore” che ha inciso “in maniera determinante” sulla decisione e che ha avuto “ripercussioni drammatiche” sulla vita del 34enne, detenuto nel carcere milanese di Bollate.
Stasi chiede di disporre l’annullamento con rinvio, quindi che si esprimano nuovamente i giudici d’appello. In caso positivo chiede anche “di sospendere gli effetti del provvedimento”, ossia di tornare libero fino alla nuova decisione definitiva (tema su cui non può decidere direttamente la Suprema Corte, ndr). La prima sezione della Cassazione ha fissato l’udienza per discutere del ricorso straordinario il 27 giugno prossimo.
Nel documento di 39 pagine, Stasi – difeso dall’avvocato Angelo Giarda – mette in discussione il modo in cui le stesse prove sono state valutate in maniera diametralmente opposta. Giudicato con rito abbreviato è stato assolto dal gup e in secondo grado, ma la Cassazione ha rimandato gli atti ai giudici d’appello affinché valutassero nell’insieme gli elementi raccolti. Nel processo d’appello bis, Stasi è stato condannato a 16 anni, pena confermata in via definitiva sulla base di nuovo elementi e non di una loro rilettura. Eppure, lamenta Stasi, i testimoni o le prove che hanno concorso ai cinque gradi di giudizio sono stati acquisiti solo una volta.
L’esperto che ha trovato il Dna di Chiara sui pedali della bicicletta, chi ha eseguito gli esperimenti sull’essiccazione delle macchie di sangue sul pavimento di via Pascoli, sulle suole delle scarpe di Alberto o sui tappetini della sua auto, le due testimoni che hanno descritto una bici fuori dalla villetta la mattina del delitto – solo per citare alcuni punti elencati nel ricorso – sono stati sentiti unicamente dal gup. La condanna è stata pronunciata “senza che tali prove dichiarative venissero nuovamente assunte” dai giudici del secondo grado eppure “la percezione diretta” è una “condizione essenziale” per valutare con “correttezza e completezza”. Un “errore di fatto” che ha limitato il diritto di difesa e che Stasi vuole si corregga perché “il diritto ad un equo processo” è sancito dall’articolo 117 della Costituzione ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). In questo senso chiede che la Suprema corte revochi la condanna e in via del tutto subordinata sollevi la questione di legittimità costituzionale riconoscendo che avrebbe dovuto annullare la sentenza d’appello “in quanto le prove ritenute decisive dal primo giudice” che assolve l’imputato “risultano sconfessate cartolarmente dalla pronuncia di condanna”.