di Carblogger
La notizia dell’avvicendamento ai vertici di Ford non mi ha sorpreso, era nell’aria. Dalla nomina di Mark Fields a Ceo nel luglio 2014, l’azione ha perso quasi il 40% del valore. Ford, nonostante un profitto operativo di oltre 10 miliardi di dollari, lo scorso anno ha mancato due volte il risultato rispetto alla “guidance” comunicata al mercato finanziario. Quest’anno a marzo ha emesso un “profit warning” e Fields negli ultimi mesi era sotto pressione sia da parte degli azionisti che degli investitori, evidentemente non convinti della bontà della sua “doppia strategia”, una per il presente, l’altra per il futuro.
Alla conferenza stampa di lunedì, in cui Bill Ford ha presentato il nuovo Ceo Jim Hackett, mi hanno colpito due cose: l’enfasi posta da ambedue sugli aspetti dove l’azienda deve migliorare (“we have to re-energize, modernize our business”, “we need to move at a faster pace”, “we need to have clarity of strategy and a clear sense of alignment”), che implicitamente sono quelli dove Fields non è stato considerato all’altezza, e la presenza intangibile del fantasma del Ceo che ha preceduto Fields, Alan Mulally. L’outsider da tutti adorato che con la sua strategia “One Ford” sembrava aver cambiato per sempre una cultura aziendale dominata dalla “malicious obedience”, evocato dallo stesso Bill Ford per esaltare il profilo di “cultural change agent” di Hackett.
In sostanza, a Fields viene rimproverato di aver investito ingenti risorse in tecnologie future la cui rilevanza per il cliente è tuttora in discussione, e di aver trascurato il “Blue Oval”, vale a dire il core business (“making cars and trucks that are relevant to everyday life”), non cogliendo profittevoli opportunità di prodotto e trattando superficialmente un tema fondamentale come quello della qualità. In fondo ha ragione chi sostiene che il destino di Fields lo accomuna al suo mentore Jacques Nasser, Ceo di Ford dal 1999 al 2001, che, da esperto uomo di finanza, per primo nel settore rifocalizzò l’azienda sulla crescita dello shareholder value e che, a tal fine, professava la necessità di trasformare Ford in una “consumer company” (tipo General Electric o Coca-Cola, aziende che allora vantavano price-to-earnings ratio da 36 a 40, invece che da 9 a 12). Nello stesso modo in cui Fields fino a pochi giorni fa si riferiva a Ford come una “mobility company”.
Ovviamente, non ho idea se Hackett, 62 anni, che era responsabile della divisione Smart Mobility creata da Fields ma che viene da un altro settore, quello dei mobili per ufficio, sia il “transformational leader” di cui Ford ha bisogno. Ma quel che emerge da questa vicenda è che le competenze e le capacità di Fields, 56 anni, una brillante carriera vissuta interamente nell’auto dopo un master conseguito ad Harvard nel 1988, non erano più sufficienti a gestire la complessità che oggi caratterizza il settore.
“This is a time of unprecedented change”, ha ribadito lunedì Bill Ford, ed in effetti mai come oggi i costruttori sono costretti a cambiare continuamente direzione per seguire tendenze, dall’elettrico alla guida autonoma, dalla connettività alla condivisione, che sono tutt’altro che definite. E ci vogliono soldi, tanti soldi, per rimanere competitivi nel presente, e al tempo stesso assicurarsi una presenza globale nel futuro, magari con nuovi formidabili concorrenti come Amazon, Google ed Apple.
La partenza di Fields, uno di gran lunga superiore alla media, è un segnale inequivocabile per tutti coloro che lavorano nell’auto, a tutti i livelli, in tutte le funzioni. In molti casi, la professionalità che è bastata fino ad oggi d’ora in avanti potrebbe non essere più adeguata, i requisiti non sono più gli stessi. Fields è solo la prima vittima, e non sarà l’ultima.