“Le Soprintendenze collassano prive di personale, causando enormi ritardi e disagi ai cittadini; le biblioteche e gli archivi chiudono, facendo perdere spazi sociali e culturali, oltre che fondamenti della Storia del Paese; il turismo culturale cresce meno che nel resto del mondo e si concentra in pochissimi centri, portando pochi soldi e tanti problemi; la disoccupazione nel settore cresce, nonostante la crescita di entrate e turisti”. Nel documento elaborato dal gruppo “Mi Riconosci? sono un professionista dei beni culturali” per il lancio, oggi 24 maggio, della Giornata nazionale di riscatto per la dignità del settore culturale e dei suoi lavoratori, c’è anche questo. La fotografia di un mondo, quello dei produttori ma anche dei fruitori della cultura nelle sue tante accezioni, che sembra sempre più maltrattato. Perfino marginalizzato dalle politiche più recenti che propugnano l’utilizzo progressivamente più massiccio del volontariato.
Archeologi e storici dell’arte, archivisti e bibliotecari e moltissimi altri precari della cultura chiedono considerazione. Si aspettano azioni concrete, dopo decenni di proclami generici, di annunci rivelatisi spot.
“Nel mondo globalizzato ogni Paese investe su ciò che lo rende competitivo. Le materie prime, la manodopera a basso costo. Noi dobbiamo puntare sulla storia, l’arte, il talento, la bellezza, l’intelligenza, la creatività”. Il ministro Dario Franceschini nel maggio 2014 non sembrava avere dubbi. Avrebbe puntato forte non solo sul Patrimonio archeo-storico-artistico, ma anche sulle categorie professionali che s’impegnano nella tutela e nella valorizzazione. Il fulcro vitale di un asset che altrimenti si fonderebbe esclusivamente su testimonianze materiali. Insomma su aree archeologiche, palazzi con cicli pittorici, musei e pinacoteche, monumenti e archivi, biblioteche e spazi espositivi.
E’ bastato poco tempo perché le speranze di giovani laureati e attempati specializzati e addottorati fossero deluse. Speranze spazzate via dalla realtà. Lavoro sempre più difficile da reperire in un mercato da tempo asfittico e compensi che si assottigliano al punto da divenire sempre più spesso dei “rimborsi spesa”. Così generazioni intere, fatta eccezione per qualche raro fortunato caso, sono rimaste al palo. Tradite, umiliate, perfino derise. Non solo da Franceschini, sia ben chiaro. Ma anche da molti dei ministri dei Beni culturali che lo hanno preceduto. Tutti incapaci di capire che Loro erano il punto di forza dell’Italia. Forse ancor più che non i monumenti che richiamano turisti da ogni parte del mondo e costituiscono senza dubbio uno degli elementi distintivi del Paese. Tutti sostanzialmente disinteressati a quella pletora di professionisti della cultura, forse troppo silenziosi. E’ così che molti pian piano si sono trasformati in schiavi “volontari”, in occupati senza garanzie. Ma ci sono stati anche quelli che hanno alzato bandiera bianca, cercando altre occupazioni, spesso con nessuna attinenza nei confronti dei loro studi, del loro lungo praticantato.
Per queste ragioni è necessario esigere per una volta attenzione. Per i trascorsi decenni di sostanziale disinteresse bisogna dire basta. Perché le colpe maggiori di Franceschini e dei suoi predecessori non sono solo quelle di aver contribuito, anche se in maniere differenti, alla rovina di molte parti del nostro patrimonio archeologico. Non è questo il loro maggior demerito, ma quello di aver precluso a tanti giovani ed ex giovani la possibilità di trovare piena soddisfazione alle loro capacità. Le riforme delle Soprintendenze, il ripensamento degli spazi museali, l’idea che la valorizzazione non abbia quasi limiti hanno stravolto l’architettura di un mondo nel quale continuano quasi a non essere compresi i professionisti che vi lavorano. In modo particolare quelli cosiddetti “a partita Iva”. Per loro non è cambiato molto, anzi se possibile sono accresciute le difficoltà. Sono diminuite le occasioni. Ed almeno in questo senza differenze sostanziali tra sud e nord, Roma compresa. Siamo al collasso di un sistema che finora è sopravvissuto quasi inconsapevolmente. Si può fare ancora qualcosa, è necessario farlo. La mobilitazione di oggi serve soprattutto ad avanzare alcune richieste.
“Portare l’investimento dell’Italia in cultura al 1,5% del Pil, in linea con gli altri Paesi europei; mettere mano alla recente riforma delle Soprintendenze, per aggiustarla con l’aiuto dei funzionari che le vivono direttamente; assumere almeno 2000 persone in tre anni nelle Soprintendenze e Musei statali, con un piano serio basato sulle esigenze: passare poi anno per anno ad assumere a seconda delle necessità del momento, per portare l’organico a compiere tutti i compiti specificati dal Codice del 2004; eliminare il blocco del turn over e permettere a enti locali e istituzioni culturali di assumere secondo le possibilità e le esigenze; regolamentare adeguatamente l’accesso alle professioni dei beni culturali, ad oggi totalmente deregolamentato e oggetto di abusi; impegnarsi, nei prossimi due anni, a redigere un dossier dettagliato di tutti i luoghi culturali d’Italia chiusi o in condizioni di disagio, che necessitano investimenti per poter produrre cultura e, eventualmente, entrate economiche”.
La mobilitazione c’è. In grande stile. Le richieste anche. A questo punto spetta al governo. Essere ottimisti è d’obbligo, ma le tante delusioni del passato invitano alla cautela.