Per far partire i corsi è necessario rispettare un equilibrio tra il numero dei professori e quello degli iscritti: ci vogliono almeno 9 docenti di riferimento per il primo livello (la laurea triennale) e 6 per il secondo livello (quella specialistica). Una soglia sempre più difficile da rispettare
Non ci sono più docenti. E allora bisogna tagliare gli studenti. Il caso limite della Statale di Milano, dove il rettore ha appena deciso di mettere il numero chiuso per la facoltà di lettere, è solo la punta dell’iceberg della crisi dell’università italiana: dopo anni di tagli ai finanziamenti e al personale è bastato cambiare il rapporto tra iscritti e professori per mandare in tilt gli atenei. “Così un provvedimento in linea teorica positiva si è trasformato in un grande problema”, è il parere del Consiglio Universitario Nazionale (Cun), che già in passato aveva lanciato l’allarme. Non è bastato nemmeno attingere a piene mani dal bacino dei precari per risolvere la situazione: ora nuovi corsi, specie di area umanistica o sociale, rischiano di scomparire. Oppure di essere limitati ai pochi ragazzi in grado di superare i test d’accesso, a causa della mancanza di risorse. “In un caso o nell’altro sarà una sconfitta, perché comporterà una riduzione dell’offerta formativa”.
LA NUOVA DIRETTIVA MINISTERIALE – Per questo il problema del rapporto docenti/studenti si ripropone ciclicamente. In maniera sempre più pressante. Solo due anni fa la Giannini era stata costretta ad emanare in tutta fretta una circolare che permetteva di includere in questo calcolo una percentuale molto più alta di precari. Ma neanche questa toppa (che è stata appena prorogata fino al 2019) è riuscita a tappare la falla. Anche perché nel frattempo, sempre da viale Trastevere, a fine 2016 è arrivata una nuova
I CORSI A RISCHIO – La questione è esplosa in maniera anche mediatica alla Statale, ma l’ateneo milanese non sarà certo l’unico a dover fare i conti con la questione. Il nuovo codice, nel complesso, non ha aumentato il numero totale di docenti di riferimento necessario per le università, ma ha determinato uno squilibrio in alcune aree: il problema potrebbe riproporsi in maniera diffusa per quei settori dove i parametri sono diventati più stringenti che in passato. L’area umanistica e sociale, con le facoltà di lingue, economia e psicologia, ed in seconda battuta quelle di lettere, storia e filosofia. Ma anche medicina, che ha già il numero chiuso, ma si tratta di un numero programmato a livello nazionale (e spesso dilatato dai ricorsi in tribunale) che potrebbe comunque non corrispondere alle risorse effettivamente a disposizione degli atenei. Per far fronte alle difficoltà i rettori lavorano di fantasia: c’è chi ricorre ai precari, chi accorpa corsi simili tra loro, chi trasferisce docenti nei dipartimenti dove c’è più bisogno (nei limiti del possibile: un professore di ingegneria non può comunque finire in antichistica). Ma si tratta comunque di espedienti per tamponare l’emergenza. “L’unica soluzione sistemica è tornare ad investire nell’università e restituire agli atenei la forza lavoro perduta in questi anni di tagli”, conclude Abate dal Cun. Altrimenti il Miur potrebbe fare un passo indietro, e ripristinare i vecchi e più flessibili parametri di accreditamento dei corsi: “Ma sarebbe come chiudere un occhio sui valori tossici per dichiarare potabile un’acqua che in realtà non lo è”. E allora avere anche i corsi di lettere o economia a numero chiuso potrebbe non essere più solo una scelta impopolare.
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