Secondo il pm Marcello Tatangelo, il magistrato fu assassinato per “il suo estremo rigore” e per l'interesse verso le “attività finanziarie” dei clan calabresi. Per il pubblico ministero non è certo se sia stato l’imputato a premere il grilletto, ma certa è la sua presenza nel commando
“Rocco Schirripa è al di là di ogni ragionevole dubbio colpevole”. Per questo la procura di Milano ha chiesto di condannare all’ergastolo il panettiere calabrese accusato dell’omicidio del procuratore capo di Torino Bruno Caccia, avvenuto il 26 giugno 1983 nel capoluogo piemontese. La richiesta è stata fatta dal sostituto procuratore della Dda milanese Marcello Tatangelo nel processo in corso davanti alla Corte d’assise di Milano, che dovrà decidere se ritenere Schirripa colpevole o innocente. Per il pubblico ministero non è certo se sia stato l’imputato a premere il grilletto contro quel magistrato ritenuto incorruttibile inavvicinabile, diverso da molti altre toghe che, nella Torino dei primi anni Ottanta ancora impaurita dal terrorismo intrecciavano interessi e affari con malavitosi. Quello che è certo è la presenza nel “commando” e questo dovrebbe bastare a condannarlo.
Secondo il pm, Caccia fu assassinato per “il suo estremo rigore” e per l’interesse verso le “attività finanziarie” del clan calabrese che impedivano all’organizzazione di fare affari nonostante la compiacenza di altri magistrati legati alle cosche. “In un dialogo con un altro esponente del clan – ha ricordato Tatangelo – Belfiore disse che ‘con Caccia come procuratore, pur avendo amici in magistratura, per noi non c’è niente da fare’”. Tolto di mezzo, i malavitosi ritenevano al suo posto potesse diventare capo della procura torinese Luigi Moschella, magistrato in contatto con loro.
Nonostante nel 1993 sia stato condannato all’ergastolo Mimmo Belfiore, boss della ‘ndrangheta torinese ritenuto mandante dell’assassinio, molto è rimasto da scoprire sull’omicidio Caccia. Nel 2015, dopo l’esposto presentato dalla famiglia del magistrato rappresentata dall’avvocato Fabio Repici, la procura di Milano avvia un’inchiesta affidata alla squadra mobile di Torino. Nell’estate di quell’anno Belfiore viene scarcerato per gravi motivi di salute. Torna nella sua casa, nell’hinterland di Torino, e riprende alcuni contatti, tra cui quello con il cognato Placido Barresi, già accusato e assolto in un altro processo per l’omicidio di Caccia. Mentre sono in corso le intercettazioni ottenute dai pm milanesi, effettuate anche grazie ad alcuni trojan su smartphone e tablet, gli agenti della polizia cominciano a inviare lettere anonime con un vecchio articolo de La Stampa e i nomi dei principali sospettati. Tra questi Belfiore, Barresi e Rocco Schirripa, detto “Barca”. I primi due vanno in allarme e ne discutono. A dare un elemento in più agli investigatori, però, è una frase intercettata nel corso di una telefonata: “Ti sei fatto trent’anni tranquillo, fattene altri trenta tranquillo”, dice Barresi a Schirripa.
Il 22 dicembre 2015 Schirripa viene stato arrestato e nel luglio 2016 comincia il processo, ma a novembre un errore procedurale obbliga la corte a fermare tutto e ricominciare da capo con un arma spuntata: molte intercettazioni devono essere stralciate. Schirripa viene scarcerato e subito ri-arrestato, in vista del processo bis: “Il percorso di questo processo – ha detto Tatangelo all’inizio della sua requisitoria – è stato complesso, ma siamo caduti e ci siamo rialzati” e ora a disposizione della Corte c’è “una pluralità di elementi di prova che vanno valutati in modo congiunto”.
Schirripa, difeso dagli avvocati Basilio Foti e Mauro Anetrini, si è sempre dichiarato innocente. Molti punti restano ancora da vagliare. Se per la procura l’uomo era sicuramente presente al momento dell’omicidio, ma non è certo che sia stato lui a sparare, bisognerà capire chi altro fosse presente. I sospetti degli investigatori si sono concentrati su Franco D’Onofrio, ex esponente di Prima Linea molto vicino alla criminalità calabrese (anche lui, come Schirripa, è stato coinvolto nell’inchiesta “Minotauro” sulle cosche torinesi, in cui è stato condannato in appello). Potrebbe anche non essere l’unico. La famiglia ritiene invece che non siano stati approfonditi altri livelli e altri interessi su cui Bruno Caccia stava indagando, tra cui il riciclaggio del denaro della mafia siciliana nei casinò del Nord Italia.