La pillola non è più gratuita per tutti e le donne delle fasce più deboli rinunciano senza avere alternative. Da dieci mesi, infatti, gli ultimi anticoncezionali orali che si trovavano in fascia A – ovvero a carico del Servizio sanitario nazionale – sono stati riclassificati in fascia C, e quindi a carico delle tasche del cittadino. Una manovra che, secondo alcuni rappresentanti dei medici di base intervistati da ilfattoquotidiano.it, sta determinando una diminuzione nel numero delle pazienti che si fanno prescrivere il farmaco: “C’è il rischio”, denunciano, “che ci sia un aumento delle interruzioni di gravidanza. L’unico anticoncezionale che in Italia continua ad essere rimborsato dallo Stato è l’aborto“. Tanto che questa manovra è stata definita dallo stesso Sindacato dei medici di famiglia (Smi) “un passo indietro inaccettabile“: “Come medico e come donna contestiamo questi ulteriori tagli, risibili in termini di economia, ma che rivestono una forte connotazione politico-culturale”, spiega la segretaria generale Smi Pina Onotri. Una manovra che “in alcuni contesti disagiati dal punto di vista socio-economico toglie la possibilità ai medici di fare informazione e prevenzione, impedendo una contraccezione consapevole a chi non può permettersi di pagare di tasca propria”.
L’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) però difende la riclassificazione, “motivata”, dicono, “dalla necessità di uniformare il regime di fornitura e rimborsabilità” tra le numerose pillole anticoncezionali. In altre parole, secondo Aifa, lasciare alcune pillole nella fascia A avrebbe potuto generare “un orientamento prescrittivo verso i farmaci rimborsabili non del tutto appropriato”. Eppure la scelta è stata in parte criticata da alcuni rappresentanti dei medici di famiglia perché, dicono, in ogni caso le pillole diventate a pagamento costituivano già una nicchia del mercato degli anticoncezionali. “Il grosso delle pillole di ultima generazione era già in classe C – spiega il medico di base del piccolo comune lombardo di Carnago, Maurizio Andreoli, facendo riferimento a quelle più nuove e pubblicizzate dalle case farmaceutiche – Infatti, la riclassificazione ha interessato le pillole di terza generazione, che rappresentano circa il 10% del mercato, una nicchia di farmaci che era utilizzata principalmente dalle classi più deboli”. Ovvero, secondo il medico lombardo, le categorie più colpite dal provvedimento sono ragazze molto giovani, famiglie poco abbienti e donne straniere.
Triminulet®, Planum®, Ginoden®, Milvane®, Etinilestradiolo e Gestodene Mylan Generics®, Estmar®, Practil®, Brilleve®, Gestodiol®, Kipling®, Minulet®. Ecco i nomi delle pillole che hanno visto il rincaro del prezzo “senza che venissimo neppure avvisati”, precisa Fiorella Gazzetta, da 35 anni medico di famiglia a Varese. Una riclassificazione che è stata decisa dalla Commissione tecnico scientifica di Aifa a novembre 2015 ed è entrata in vigore solo la scorsa estate. Ma quali sono le motivazioni che hanno dettato l’aumento del prezzo delle ultime pillole gratuite rimaste in circolazione? Alza le mani la direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del ministero della Salute, segnalando che “la competenza in tema di rimborsabilità dei farmaci è dell’Agenzia italiana del farmaco” che, contattata da ilfattoquotidiano.it, aggiunge “il profilo di sicurezza” di questi farmaci di terza generazione tra le cause alla base di questa manovra. “La letteratura scientifica – dichiara l’Agenzia del Farmaco – ha evidenziato un maggiore rischio di trombo-embolismo venoso connesso all’utilizzo di pillole contenenti progestinici di terza generazione”, proprio quelle che ora sono diventate a pagamento. Da qui la scelta di togliere il ticket per questi medicinali e inserirli nella fascia C.
Eppure, queste pillole a basso prezzo quando non del tutto gratuite, avevano un ruolo fondamentale perché largamente prescritte dai medici di base alle donne in difficoltà economiche. “La verità è che si tratta di una penalizzazione che va a colpire proprio chi ha bisogno – continua Andreoli – ovvero quelle persone per cui 10 euro a fine mese possono fare la differenza”. Per fare l’esempio della Lombardia, le stesse pillole che prima dell’estate potevano essere pagate 2 euro a confezione ora possono arrivare a costare dagli 11 ai 15 euro. Lo sa bene la dottoressa Gazzetta che, oltre ad essere medico di famiglia, da otto anni è volontaria in un ambulatorio per stranieri senza permesso di soggiorno. “Il vero problema è per le donne extracomunitarie, perché sono più giovani e hanno meno disponibilità economiche”. Se aggiungiamo che, essendo in fascia C, su questi farmaci non può più essere prescritta l’esenzione del ticket per i disoccupati, per esempio, si capiscono bene le conseguenze che questa manovra potrebbe riuscire a creare.
Infatti, pur essendo passato meno di un anno da quando l’Italia ha detto addio alla pillola gratuita, si possono già vedere le prime conseguenze di questa manovra. “Il numero di pazienti che si fanno prescrivere la pillola anticoncezionale è diminuito – racconta il medico di Varese – Alcune, soprattutto donne straniere o ragazze giovani, prendono in mano la ricetta, ma poi quando scoprono i costi rispondono ‘le farò sapere’, e non è detto che si ripresentino”. Avere reso tutte le pillole anticoncezionali a pagamento, infatti, “potrebbe portare a un aumento delle interruzioni di gravidanza”, racconta Gazzetta. “In pratica – continua il medico di base di Carnago – l’unico anticoncezionale che in Italia continua ad essere rimborsato dallo Stato è l’aborto”.
Una situazione che si complica in un Paese come l’Italia, dove i ginecologi obiettori che non praticano l’interruzione volontaria di gravidanza prevista dalla legge 194 si aggirano attorno al 70%. “C’è il rischio di un aumento di aborti, soprattutto tra le straniere. Ho avuto notizia da alcune pazienti di una maggiore diffusione degli aborti clandestini nell’area di Varese e Milano”, continua la dottoressa Gazzetta. Per aborti clandestini, si intendono interruzioni di gravidanza fatte non in ambito pubblico ma in strutture private, quindi in centri non autorizzati dal punto di vista legale, ma che garantiscono l’operazione in due o tre giorni di tempo. Una pratica che – come ha ricordato lo stesso ministro della Salute Beatrice Lorenzin al question time di fine aprile alla Camera – stando alla stima più recente fatta nel 2012 dell’Istituto Superiore di Sanità, conta tra i 12mila e i 15mila casi per le donne italiane e tra i 3mila e i 5mila casi per le straniere. “Siamo passati da una contraccezione facile e possibile a una pratica a pagamento – precisa Andreoli – È chiaro che alcune pazienti rinunceranno e che le fasce più deboli ne pagheranno le conseguenze”. Secondo i medici di base interpellati, salute femminile e contraccezione non sono più una priorità al fronte di una eccessiva attenzione ai risparmi pubblici. “Se non torniamo a fare una vera politica di base – chiude Fiorella Gazzetta – rischiamo di lasciare spazio a tutti coloro che speculano sulla salute delle donne”.