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Africa, all’Europa piace quella degli affari. Ma è scomoda quella che si muove libera

L’Italia del G7 è la stessa dei C(ie). Da Taormina al Niger passando dalla Libia per terminare, per ora, nel Tchad di Idriss Deby, dittatore di lungo corso. Nell’interrato del suo palazzo presidenziale si torturano nemici e opponenti. Arriviamo nel settore col nostro bagaglio di esperienze. L’Europa è quella dei campi e dei centri di detenzione, di cui il nostro Paese riproduce a suo modo metodi e finalità. Nell’Africa del Sud i campi sono stati creati per prova fin dall’inizio del secolo scorso. Nel Sudafrica con gli inglesi e in Namibia coi tedeschi . Il nome di lager sarebbe poi diventato comune, riprodotto e sviluppato in coerenza coi principi del nazismo e del fascismo. Campi che si mutano in centri che si travestono in prigioni. Lo scopo dei quali non è altro che la commercializzazione del noto principio di soppressione dei poveri nel tentativo di cambiare la storia. Finalmente, col recente accordo di Roma, i centri di identificazione, eliminazione giuridica e deportazione, sono ormai parte integrante delle esportazioni italiane in Africa.

E dire che ora siamo tra i principali investitori europei in Africa. Addirittura i primi nel 2016, a credere nell’ultimo rapporto della società internazionale di servizi Ernst&Young sull’attrattività delle economie africane. Attraggono infatti i centri di detenzione sparsi nel Nord Africa, in Libia e prossimamente sugli schermi del Niger e del Tchad. Il valore degli investimenti citati è, a livello mondiale, dietro soltanto a Cina, Emirati Arabi Uniti e Marocco. L’Europa perde il pelo ma non il vizio. La colonizzazione si adatta ai tempi, si delocalizza ma sempre dalla stessa parte. Investe dove meglio crede e nel frattempo con-centra le sue esportazioni nelle aree più redditizie alle politiche di esclusione mirata degli intrusi del futuro. Che il rappresentante dell’Alto commissariato per i Rifugiati abbia denunciato le condizioni disumane nei centri libici non è che una conferma. L’eliminazione silenziosa degli eccedenti umani è fattibile solo se mantenuta a debita distanza. Nulla di nuovo, già con Gheddafi nel 2004, si vendevano a caro prezzo migranti e rifugiati.

Non ci basta aver circondato l’Europa di griglie e di fili spinati. Non è parso sufficiente aver imbastito reticolati di campi di identificazione, attesa provvisoria indefinita, prigioni d’altri tempi e hot spot. Il passo successivo, da tempo iniziato, non poteva che essere la globalizzazione del controllo. L’esternalizzazione dei campi, pardon, “centri” di raccolta, sistemazione, promozione ed eliminazione con rinvio al mittente. Ciò compone il quadro della politica migratoria europea e italica in particolare. Una vecchia storia davvero. L’esotica Africa, inventata, colonizzata, sfruttata, marginalizzata e infine arredata da luoghi di con-centra-mento, prossima meta di visite guidate per turisti in vena di emozioni umanitarie. Già Tony Blair nel 2003 aveva lanciato l’idea dei campi esterni all’Europa. Si trattava senz’altro della famosa terza via di cui si era fatto il consapevole portavoce. Col tempo le strategie di contenimento hanno portato i loro frutti ideologici. Lo stesso Romano Prodi, a nome dell’Europa, parlava di migranti “scelti, controllati e collocati”.

Va bene l’Africa degli affari e degli investimenti ma scomoda l’Africa che si muove libera. L’Africa invitata al G7 e l’Africa che si lascia comprare. Quest’Africa non è diversa da noi. Popolo che ha svenduto la Costituzione, la politica, il bene comune e la democrazia ai banchieri e faccendieri di interessi privati. Siamo nella gabbia degli armamenti, delle basi militari americane e del servizio militare in-volontario. Figli delle privatizzazioni che toccano il più sacro della vita, i nascituri e i nati diventati grandi e poi abbandonati come vuoto a perdere. Siamo conseguenti con lo smarrimento graduale e diffuso delle più comuni forme di umana convivialità. Esportiamo ‘campi’ che con-centra-no la più avvilente maniera di interagire con la diversità e mutilano “il viaggio della speranza” che pure a suo tempo abbiano noi stessi intrapreso. Loro siamo noi, perché corresponsabili dei misfatti che hanno distrutto la Libia, l’Irak, l’Afganistan e la Siria. Rei mai confessi della vendita di armi che uccidono e creano profughi. Complici coscienti di accordi economici che strozzano le economie locali. Noi siamo loro, quando un giorno busseremo alla loro porta.

mauro armanino, niamey, maggio 2017