“Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo”, possiamo pure ammazzarlo, aveva detto il capo dei capi di Cosa nostra il 14 settembre 2013, intercettato all'interno del carcere milanese di Opera. Il sacerdote: ""Non ho paura, sono solo disorientato. Ma il nostro impegno va avanti"
“Non ho paura, sono solo disorientato. Ma il nostro impegno va avanti”. Tre anni dopo le minacce di Totò Riina, don Luigi Ciotti è comparso al tribunale di Milano per partecipare all’udienza preliminare relativa all’indagine sulle parole del boss corleonese. Un’inchiesta che la procura di Milano vorrebbe archiviare mentre l’avvocato Enza Rando, vice presidente dell’associazione Libera, si è opposta. L’udienza si è tenuta davanti al gip Anna Magelli che si è riservata di decidere.
Le intercettazioni con le minacce di Riina erano state depositate nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia, in corso davanti alla corte d’assise di Palermo e sono state trasmesse alla procura milanese per competenza.“Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo”, possiamo pure ammazzarlo, aveva detto Riina il 14 settembre 2013, intercettato mentre nel carcere milanese di Opera trascorreva l’ora di socialità insieme ad Alberto Lorusso, detenuto con l’accusa di essere un boss della Sacre Corono Unita. La ragione alla base delle minacce, secondo gli investigatori della Dia, era legata all’attività di Libera, che gestisce diversi beni confiscati a Cosa nostra. E infatti nella stessa conversazione intercettata Riina aveva detto a Lorusso di essere “preoccupato. Sai, con tutti questi sequestri di beni…”.
Don Ciotti, al termine dell’udienza davanti al gip, ha spiegato ai giornalisti che “sarà la magistratura a valutare i profili penali delle minacce. Per me sono parole chiare”. Parole, quelle pronunciate dal boss di Corleone che comunque “non fermano il nostro percorso e l’impegno non di una persona ma di un coordinamento di associazioni che raccoglie migliaia di persone. Noi difendiamo la libertà e facciamo battaglia contro ogni forma di violenza, criminalità e mafia”.
E visto che la procura ha chiesto di archiviare l’indagine per minacce il fondatore di Libera ha anche aggiunto che “Riina sa come mandare i messaggi fuori dal carcere. Le sue parole non sono le parole di uno qualsiasi. Lui resta un simbolo per i mafiosi e anche i suoi silenzi hanno un significato”. L’udienza a porte chiuse i è tenuta nell’aula della prima Corte d’Assise di Milano, la stessa che ha ospitato il processo agli assassini di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia vittima della ‘ndrangheta e in particolare di Carlo Cosco, suo ex compagno e padre di sua figlia Denise. “Da quel momento – ha detto – decine di donne senza rumore, per amore dei figli, stanno rompendo i codici mafiosi e aprendo un grande varco”.
L’avvocato Rando, invece. ha spiegato di essersi opposta all’archiviazione dell’indagine perché a sua avviso quello di Riina “era un modo per mandare messaggi all’esterno” della cella di Opera. Durante l’udienza, fuori dal Palagiustizia Milanese, vari esponenti di Libera provenienti da tutte le parti d’Italia, un centinaio di persone, hanno organizzato un presidio per manifestare la loro solidarietà al presidente.