La Greater Manchester è l’area metropolitana più grande d’Inghilterra dopo quella di Londra. E’ anonima, anomica e popolata da un meltin’ pot culturale simile a quello di Londra. Ma laggiù non è Londra, piuttosto una immensa provincia; affascinante, appariscente e molto deprimente. Se già la capitale è Rough and tough (o ruff n tuff in slang di strada) il North, con la “o” chiusa, come direbbe un Mancunian, lo è di più. Per capire la provincia inglese basta guardare un’istantanea in numeri che spiega più delle parole: al referendum sulla Brexit 6 su 10 in città hanno votato per rimanere; 6 su 10, nei sobborghi e in provincia, hanno votato per andare via. La città ha la vetrina, i locali, il meltin’ pot; la provincia ha i numeri.
Manchester rappresenta bene il Regno Unito, le contraddizioni di un paese che è tutto tranne che un’oasi di felicità ben distribuita, opportunità e facile convivenza tra diversi: l’Inghilterra è uno dei paesi più diseguali in Occidente, quello dove i bambini crescono più infelici e questo enorme gap è considerato la ragione e non la conseguenza della Brexit. Il lato oscuro del “Curry Mile”, la celebre via dei ristoranti indiani nel cuore di Manchester, della presenza enorme di studenti, della musica pop e della bella scena creativa della città sono i Council flats (blocchi di case popolari) della periferia e dell’hinterland, colmi di disoccupati cronici in sussidio, di giovanissime madri, di baby gang. Su Manchester, sul degrado delle sue periferie è fiorita una densa cultura popolare nel Regno Unito. Uno degli esempi più noti è Shameless, una serie tv trasmessa per anni sul canale Channel 4 e incentrata sul sottoproletariato bianco dei sobborghi della città; personaggi alla Trainspotting trapiantati nel nord dell’Inghilterra.
Dopo i tragici eventi di questa settimana, questa lunga premessa sul contesto è necessaria: contestualizzare e capire, sono gli unici modi per affrontare un fenomeno complesso di questo tipo. L’alternativa è affidarsi alla retorica analfabeta: “siamo in guerra”, “è colpa dell’Islam”. Gli Ahmed e le Fatima , i musulmani moderati, sono tanti, la schiacciante maggioranza – forse la quasi totalità – di coloro che vivono in Europa. Eppure noi ascoltiamo solo i deliri di quel tale, ne decontestualizziamo le motivazioni e eleviamo il singolo a rappresentante della comunità, come se esistesse “una” comunità musulmana che va da Jakarta a Marrakesh, un solo popolo totalmente scollato e impermeabile alle culture locali. Partiamo dai fatti e dal contesto, invece, altrimenti rischiamo di dimenticare che in Europa abbiamo da secoli “nativi musulmani”; e finiamo per credere che le motivazioni di Salman Abedi avessero qualcosa a che fare con la religione dei padri e dei nonni e non fossero, come diceva Olivier Roy su Le Monde, ai tempi della strage del Bataclan, i motivi di “[giovani in] cerca di una causa, di un’etichetta, di una grande narrazione su cui apporre la firma sanguinaria della loro rivolta personale”.
Gli attentatori suicidi prima che musulmani sono specchio del disagio: un esercito di disadattati nichilisti, prodotti delle società (occidentali) in cui sono nati e cresciuti. I loro obiettivi sono grottescamente stereotipati tanto quanto le etichette che ogni giorno politici da mercato (virtuale) e perditempo da tastiera appiccicano loro addosso. Per i nemici del multiculturalismo sarebbero strateghi, ideologi o portavoce del mondo musulmano, ma in gran parte delle grandi città d’Europa dove gli attentatori hanno colpito, le missioni suicide non hanno hanno guardato in faccia colore o religione: i morti che abbiamo pianto sono cristiani, atei, buddisti e musulmani. Anzi, questi ultimi sono stati colpiti due volte: uccisi come gli altri, si sono dovuti anche fare carico di una responsabilità collettiva: ovvero quando le colpe dei figli ricadono sui padri, sui nonni e sulla quasi totalità dei cittadini (pacifici) di seconda e terza generazione che cercano faticosamente di uscire dal purgatorio delle “minoranze etniche” in cui sono stati relegati.
“Non capiamo, era una persona gentile (o un piccolo delinquente), non era un musulmano praticante, beveva, fumava spinelli e frequentava le ragazze. Poi è cambiato, si è lasciato crescere la barba e ha cominciato a parlare di religione”. Parliamo di Salman Abedi? No, la citazione è ancora di Oliver Roy e si riferisce agli attentatori di Parigi. Diverso degrado, risultato identico: Abeti non frequentava moschee, fumava cannabis e beveva, scriveva l’Independent all’indomani degli attentati. I vizi terreni, a quanto, pare sono una costante nell’islam fai-da-te. Sui social, in tanti hanno commentato il suo gesto con #youaintnomuslimbruv (fratello, non sei musulmano) un hashtag diventato trending topic in Inghilterra nel 2015, dopo l’attacco con machete nella metro di Leytonstone.
Ciò che è chiaro ora, ma a voler essere precisi chiaro lo era da ben prima di Manchester e forse degli attentati del 07/07 2005, il Regno Unito ha un problema con il Regno Unito, prima ancora che con l’Islam. Il giovane che ha provocato l’orribile strage di innocenti è colpevole e vittima. Lui e gli alieni che popolano i suburbs e l’anonima provincia britannica li ha raccontati bene Channel 4 nel documentario Jihadist Next Door andato in onda a fine 2015: i radicalizzati – quelli pronti all’azione – e gli ideologi non sono un esercito pronto a conquistare il mondo, piuttosto un eterogeneo gruppo di disadattati con scarsi legami con l’Islam ufficiale e molto scollamento dalla realtà in cui vivono.
Tutto ciò li assolve? Assolutamente no, ma la soluzione non è una, perché il problema non è uno e probabilmente il profano, nella vicenda dei jihadisti, ha più importanza del sacro. Le soluzioni facili mettono, certamente, un freno temporaneo all’ansia e sono manna dal cielo per le carriere politiche costruite sulla paura ma finiscono poi per non avere alcun impatto sulle cause endogene.