Notizie per la scuola da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea. I dati, pubblicati all’inizio di maggio, sono del 2016 e rilevano il rapporto tra titolo di studio e mondo del lavoro; il tasso di occupazione dei laureati italiani sotto i 35 anni, a 3 anni dall’acquisizione del titolo, è il 57,7%. Lo stesso indice, nella media europea a 28, è l’80,7%: l’analogo dato in Germania è il 92,6%. Eurostat ha poi elaborato i dati relativi a chi ha solo il diploma di istruzione di secondo grado. Entro 3 anni dalla sua acquisizione nel 2016 era occupato il 40,4% dei giovani italiani, con una distanza ancora incolmabile dalla media continentale: il 68,2% dei diplomati europei trova infatti lavoro entro i 3 anni; in Germania l’86,4%. Nonostante i progressi registrati rispetto agli esiti precedenti, in ambedue le rilevazioni l’Italia è penultimo posto: peggio di noi, solo la Grecia.
Generalmente, i dati dovrebbero orientare le politiche, mediarle sulla base di quanto rappresentano. Quando Renzi pubblicò La Buona Scuola per procedere alla consultazione (una proposta finta, perché non c’è mai stata una rendicontazione) sul bisogno di infliggere la peggiore stangata in termini di qualità e diritti mai sferrata contro la scuola italiana. Quel documento sosteneva che l’elevata disoccupazione giovanile in Italia dipenderebbe dall’inefficienza della scuola nel formare competenze adeguate per le imprese: il Rapporto Mckinsey attribuiva infatti il 40% del mancato impiego dei giovani in Italia all’incapacità della scuola di fornire profili adeguati al mercato del lavoro. Affermazioni smentite seccamente da una serie di dati e studi: UnionCamere-ministero del Lavoro, ad esempio, evidenzia invece che il tasso di disoccupazione giovanile dovuto a “mancanza di adeguata preparazione e formazione” è il solo 2% di quella complessiva. Ma poco importano i dati.
È evidente che l’introduzione forzata dell’alternanza scuola-lavoro (nel triennio, 400 ore per tecnici e professionali e 200 per i licei di attività che avvicinerebbero gli studenti al mondo del lavoro, sottraendoli allo studio) ha ulteriormente abbassato livelli e qualità dell’istruzione, rottamando cultura emancipante e sapere disinteressato. Ha imposto – soprattutto ai ragazzi che frequentano il liceo, che delle competenze lavorative non sanno cosa fare, perché hanno prospettive e tempi di studio fisiologicamente dilatati nel tempo – una logica estranea alla scuola, costringendo ad affannose ricerche di luoghi di espletamento dell’obbligo che, in ogni caso, non garantiscono competenze professionali, né – tanto meno – opportunità lavorative. Quando va bene, sono perdite di tempo lontane dall’indirizzo di studi, quando va male sono prestazioni gratuite di manodopera.
Sta andando a conclusione un processo preoccupante, che ha attuato la devastazione culturale della logica di esigere i propri diritti, della dignità del lavoro e del lavoratore, del lavoro come completamento necessario di sviluppo ed espressione della persona umana. È stato sapientemente preparato (anche con promesse irrealizzabili) un prossimo futuro di lavoratori ignari di diritti e responsabilità; di tutele e garanzie; del rapporto tra lavoro e salario. Il lavoratore tipo del Jobs act, insomma, non deve più possedere alfabeto costituzionale, paradigma contrattuale, consapevolezza della propria dignità. Senza scomodare l’alternanza nei McDonald’s o a nei bagni degli autogrill (esempi tra i molti narrati dalle cronache) e sapendo che per alcuni indirizzi di studio l’avvicinamento al mondo del lavoro è un passaggio positivo e fondamentale (se tutelato, monitorato, finalizzato davvero alla concretizzazione di quanto studiato), dobbiamo capire che la sconfitta ratificata dall’alternanza scuola-lavoro si colloca sul piano dell’egemonia politico-culturale.
Sottrae cittadinanza consapevole ai giovani, liquida l’idea che pensiero critico-analitico e pluralismo possano rappresentare strumenti efficaci per il futuro di questo Paese. In fondo, è la solita, annosa questione: se la disoccupazione fosse frutto della rigidità dei mercati e delle inadeguatezze strutturali, allora dovremmo – in una logica autenticamente neoliberista – propendere per le controriforme e controriformicchie del sistema di istruzione propinateci dai Governi negli ultimi 20 anni, secondo i diktat europei, da Maastricht in poi. E allora, anche l’alternanza scuola lavoro potrebbe andare oltre a un atto di ossequio a quella logica e a forniture di manodopera a costo zero a qualche impresa o ente. La disoccupazione si curerebbe, infatti, eliminando le rigidità e formando lavoratori più adatti alle richieste del mercato.
Oppure la disoccupazione, in particolare quella giovanile, dipende dall’assenza di domanda e dalle politiche di austerità che l’hanno determinata. E, guarda caso, la disoccupazione è più alta da noi, dove l’austerità è stata più dura. A prescindere dalla qualità del sistema di istruzione, la risposta dovrebbe essere superare quelle politiche, creare domanda, riducendo la disoccupazione. La vera causa, sarebbero – in questo senso – le politiche economiche messe in atto per rimanere dentro l’Europa.
Ma anche sul nostro sistema di istruzione c’è una valutazione da fare: se i cervelli fuggono dall’Italia, qualcuno li ha formati e qualcun altro li trattiene. Per questo sarebbe auspicabile che, Renzi, Padoan e Gentiloni, quando chiedono (sempre timidamente) maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole, di aumentare l’enfasi sulla crescita e di ridurre quella sulla stabilità, provassero ad applicare (siamo nel campo dell’immaginazione più sfrenata) gli stessi principi anche alla scuola, invece di continuare a massacrarla in nome del mantra: “Ce lo chiede l’Europa”.