Tre anni fa il “guerriero” Omar Pedrini ci fece prendere un gran bello spavento quando ebbe un improvviso malore, mentre si stava esibendo sul palco di un noto locale a Roma: trasportato in ambulanza, venne operato a cuore aperto e i medici riuscirono a strapparlo letteralmente alla morte. È per questo che il nuovo album intitolato Come se non ci fosse un domani, segna un nuovo inizio per l’ex Timoria, in quella che lui stesso ha definito la sua terza vita o “terzo tempo”, come nelle partite di rugby di cui è un appassionato e fine conoscitore.

E ritorna più convinto e incazzato che mai: “Mi è toccato fare questo disco per confermare, una volta di più, che sono nato incendiario e mi tocca morire da piromane. In passato venivano stampati quei libretti situazionisti, manuali per saper vivere a uso delle nuove generazioni: ecco, ho cercato anch’io di fare un manualetto pensato sia per i miei figli sia per i giovani che seguono la mia musica, con poche parole chiave”.
Uscito a tre anni da Che ci vado a fare a Londra?, è un album composto da dieci brani (undici nella versione in vinile) densi di emozioni provate, offerte e regalate: “Dentro c’è la mia storia, c’è la storia di chi non molla mai, di un cane sciolto che va per la sua strada ostinatamente”, impreziosito dalle collaborazioni di artisti del calibro di Ian Anderson dei Jethro Tull (che compare col suo flauto in Angelo Ribelle), Noel Gallagher che gli ha ceduto un brano che aveva inciso solamente per il Giappone (Desperation Horse) e della Royal Albert Hall Orchestra.

 

Omar, hai intitolato questo ultimo disco Come se non ci fosse un domani, facendo tuo l’invito di Jim Morrison “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”…
Eh già, l’uomo saggio dovrebbe vivere come ogni giorno fosse l’ultimo e imparare come se non dovesse morire mai. È una frase che ho fatto mia: tanti testi e tante idee mi sono venuti durante quei due mesi che ho trascorso in ospedale, con la febbre a 40 fissa e il cervello che era fritto come un uovo in padella. Ogni tanto avevo questi momenti di ispirazione, buttavo giù delle parole chiave: è nato tutto così, di pancia.

Le canzoni sono caratterizzate da una poetica del disincanto.
Mi sono accorto che nella mia condizione si trovavano in molti: abbiamo paura del futuro, paura per i nostri figli, dell’inquinamento, dei leader politici guerrafondai, degli estremismi e dei terrorismi, dei populismi, abbiamo paura di arrivare a fine mese, una paura che ho provato anch’io nel mio periodo di inattività. È per questo che è nato un disco sociale, ho sentito l’urgenza di fare un album pensando alle nuove generazioni.

Hai fatto i conti anche con la tua rabbia.
Detesto fare il professore (anche all’università dove indegnamente insegno, a Milano), ma non potevo esimermi dal fare un invito ai giovani: “Alzatevi e ribellatevi, non armatevi di molotov ma di un buon libro”. Ci sono troppe cose che non mi piacciono. Sono incazzato, faccio i conti con la mia rabbia, anche se la mia poetica rimane pacifista. C’è una politica che ci prende per il culo tutto il tempo, che salva le banche e lascia in balia delle onde i disperati, l’Europa ci molla tasse, dazi e non ci aiuta neanche nei casi d’emergenza. Ripeto ai ragazzi di scendere in strada armati di un libro e far sentire la loro voce. Questo è il messaggio che lancio. L’anno scorso ho incontrato il Dalai Lama e ho poggiato la mia fronte alla sua. Ebbene, neanche sua santità è servito a placare questa rabbia.

In un brano definisci i giovani “tristi come i tempi che stiamo vivendo”.
Credo molto nei giovani, però ne vedo molti, a partire da mio figlio Pablo – ribelle di nome e di fatto – che ha 20 anni, e nonostante il suo modo di essere – figlio di un hippy e nipote di una donna hippy che era mia madre – mi sembra che stiano facendo una rivoluzione al contrario. Sono chiusi in casa tra amici, non escono per strada. Glielo dico spesso, “se non ti occupi di politica, quando non ci sarà più tuo padre sarà la politica che si occuperà di te”.  Mi meraviglia questa cosa che non vogliano dire la loro.

C’è molto dei Timoria che ritorna in questo disco…
È un circolo che ritorna: me l’hanno detto in molti. In rete mi hanno scritto “è tornato il guerriero”, ma inizialmente pensavo si riferissero al fatto che mi sono rialzato per la terza volta dopo un intervento, e invece ora capisco che si riferivano veramente ai tempi dei Timoria.

Nel disco ci sono collaborazioni prestigiose.
Ci tengo a dire che non ci sono duetti nel disco, ma incontri, perché gli artisti devono essere a contatto, annusarsi, come diceva Robert Plant. La musica poi arriva da sola.

Come sei riuscito a coinvolgere un grande come Ian Anderson?
Un giorno ho inviato a Ian, che ho incontrato spesso in occasione dei suoi concerti,  un’email con un mio pezzo e una proposta di collaborazione. Quando mi  ha risposto, ricordo di aver aperto l’email come un giocatore di poker quando cambia le carte: piano piano, con l’emozione e la paura che non gli piacesse il brano. Lui che è un pazzo, una via di mezzo tra Mefistofele e un clown del circo, che cerca sempre di prenderti per il culo, mi scrive di avermi fatto l’assolo e già che c’era, anche il finale del pezzo. E che, a mia discrezione, avrei potuto anche tagliarlo. Ero davanti al pc che mi davo pizzicotti sulle guance per sapere se fosse tutto vero. Ovviamente, ho tenuto tutto il materiale che mi ha inviato e il finale mi ricorda proprio i Jethro Tull. Ian Anderson che mi dice “se non ti piace cancellalo”: fossi matto!

Prosegue intanto la tua collaborazione con Noel Gallagher che ti ha fatto dono di una sua canzone.
Dopo aver visto lo straordinario documentario Supersonic ho capito tante cose sul carattere dei fratelli Gallagher. Mi chiedevo come mai fosse così chiuso su se stesso, poi quando ho ascoltato la mamma dire che da bambini il padre alcolizzato massacrava di pugni tutti i giorni Noel perché più grande rispetto a Liam, ho capito il motivo del suo particolare carattere.

Non manca in questo nuovo disco un pezzo dedicato a Milano, città da sempre presente nei lavori tuoi e in quelli con i Timoria.
Non è la Milano di Jannacci, Vecchioni o di Gaber, che sono meneghini, questa è la Milano di un provinciale, ed è vista con gli occhi di chi arriva da fuori. E anche se ci vivo da 20 anni il mio approccio è sempre un misto di meraviglia e incanto. Certo, ci sono anche le delusioni e i chiaroscuri: la canzone è ispirata dalla Milano enigmatica che osservo dal balcone di casa mia, davanti alle fondamenta dei nuovi grattacieli che stanno nascendo. L’ispirazione è arrivata dall’opera “La città di sale”: facendo ricerche in Rete ho scoperto che il Boccioni, che non era milanese, aveva usato un approccio simile per creare una Milano futurista, che è quella che sta tornando. Sarebbe la copertina ideale per il singolo Il cielo sopra Milano.

C’è anche un brano dedicato al compianto Freak Antoni.
In realtà è una canzone dedicata a Bologna, ed è nata quando ero in ambulanza sull’autostrada del Brennero a sirene spiegate. A un certo punto mi è venuta in mente questa riflessione: quando andavo a Bologna da giovane, negli anni 90, era la città più bella del mondo, frequentavo il Dams e l’università, con i Timoria ero un dio in terra per molti ragazzi, e la sera facevamo festini, dormivano nelle case degli studenti universitari, avevo una storia clandestina con una cameriera, ci si divertiva moltissimo. Quel giorno, invece, stavo andando a Bologna, a sirene spiegate, per correre in ospedale. “Così resto solo io coi miei pensieri, penso a quello che eravamo ieri. Cerco un po’ di vita tra i lampioni, chiudo gli occhi e penso a Freak Antoni”.

 

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