Che un “codice etico” di parte venga utilizzato per valutare la idoneità a ricoprire cariche pubbliche è cosa risibile o, peggio preoccupante. Che il codice etico venga modificato “ad usum delphini” quando a cadere nell’occhio delle procure è un proprio un accolito sarebbe ancor più risibile se non fosse un preoccupante segnale di quella che sembra essere l’idea di diritto elastico che i M5S tenterebbero di utilizzare qualora capitasse che arrivino a governare.
Che poi il codice etico porti a conclusioni diverse in presenza di stessi ipotetici reati va oltre il ragionevole e indica un atteggiamento arrogante che potrebbe essere espresso, senza tante manfrine attraverso un pensiero simile: “Insomma, chi si dovrebbe dimettere lo decidiamo noi, a nostra discrezione e non ci rompete troppo le scatole”.
Non è affatto detto che Virginia Raggi, indagata per abuso d’ufficio e falso venga mai rinviata a giudizio. Per sgombrare il campo da ogni dubbio, la mia idea di diritto è che un rinvio a giudizio non debba essere mai considerato sintomo di colpevolezza, ma che si debba attendere la fine del processo giudiziario prima di trarre qualsiasi conclusione sulla cristallinità dei coinvolti. Purtroppo i casi di proscioglimenti “per non avere commesso il fatto” o, addirittura “perché il fatto non sussiste” dovrebbero avere insegnato come capiti con una certa frequenza che nelle maglie della giustizia cadano anche persone innocenti.
Pertanto, dal punto di vista del diritto non mi turba affatto che il M5S si prepari a sostenere la correttezza del permanere in carica di Virginia Raggi anche se fosse rinviata a giudizio. Dal punto di vista politico, invece, trovo estremamente contraddittorio che una parte del Movimento abbia chiesto con sdegno virginale le dimissioni di un ministro (Angelino Alfano) indagato per abuso di ufficio e ritenga eventualmente ininfluente, per la permanenza in carica di un proprio rappresentante, lo stesso status di “indagata” sempre per abuso d’ufficio (con eventualmente l’aggiunta del carico del falso). Insomma, altro che due pesi e due misure.
Confido che tra i commenti che riceverò, sfrondati dai soliti insulti a perdere che vengono scaricati violentemente sopra chiunque ritenga sbagliata un’idea M5S, qualcuno mi spiegherà la logica che può sostenere posizioni così antitetiche, perché altrimenti i dubbi che già nutro (con qualche evidenza a supporto) sull’obiettività dell’elettorato M5S diventeranno certezze.
Eppure, ove si volesse farsi trascinare sulla strada indignata e stabilire una specie di “codice di opportunità” potrebbe comunque venirci in aiuto il codice penale, il quale definisce minimi e massimi di pena per ciascun reato non a caso, ma in base alla gravità dei reati stessi.
Si potrebbe applicare questo schema: pena più alta -> reato più grave -> maggiore indignazione -> più forte richiesta di dimissioni.
Anche in questo senso, però, non si capisce come il M5S possa avere chiesto, per esempio, le immediate dimissioni dell’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota quando era indagato per peculato – poi assolto – reato che prevede pene da 6 mesi a 3 anni – mentre si preparava a sostenere la correttezza delle non dimissioni della Raggi ove fosse rinviata a giudizio per falso in atto pubblico, reato che prevede pene da 1 a 6 anni perché, evidentemente, più grave.
Il dubbio, a questo punto fondato è che alla base dell’indignazione a senso unico non ci siano un reale senso di giustizia, un sussulto di moralità, il desiderio di purezza, ma il meno nobile intento di affabulare i propri elettori. Così risulta strumentalmente utile allontanarsi dalle evidenze e dalla valutazione dei reati eventualmente commessi, per portarsi nell’area totalmente grigia che è quel “codice etico” che il M5S si è inventato surrogando leggi, codice penale e ordinamento giudiziario e che può essere utilizzato ad personam come conviene. Tanto il codice etico mica deve passare al vaglio dei tribunali.