Viene facile immaginare Chris Cornell che arrivato, forse, in paradiso crea scalpore con il suo charme, la sua camicia di lino (come l’ultima volta a Roma) e ai piedi un paio di Converse o stivali neanche troppo eleganti. Sempre un po’ scaciato lui, comunque mai troppo: in bilico – come un’acrobata – tra genio e modello. Padre putativo di un movimento maledetto, il grunge, che lo vide in prima linea nella creazione e salvaguardia oltre che di un genere sopratutto di una scena: della quale lui era il “capotavola”, seduto vicino ai tanti artisti che lui stesso aveva provveduto ad invitare a quel banchetto. Come quando spinse, per primo, Eddie Vedder dei Pearl Jam ad impugnare un microfono coinvolgendolo nei Temple Of The Dog o, ancora meglio, tentò di strappare Andrew Wood dei Mother Love Bone dall’abbraccio mortale dell’eroina.
Oltre ai capolavori scritti nel pieno dei suoi Soundgarden, ecco arrivare, nei primi 2000, la parentesi registrata con gli Audioslave (inizialmente Civilian): un mostro a due teste nato dalle ceneri dei Rage Against The Machine (orfani del cantante Zac de La Rocha) e per intuizione (merito?) di Rick Rubin, che agli stessi orfanelli rimproverava il fatto di non avere mai avuto un vocalist all’altezza della situazione. Nel mezzo una carriera solista mai decollata, cominciata pure con il bellissimo “Euphoria Morning”, dove il buon Chris aveva scelto di spogliarsi totalmente del registro chitarristico hard & heavy – che fino a quel momento aveva costituito la sua appendice di vita – in favore di un rock sussurrato, venato di pop e malinconia assolutamente regolare: una formula onesta e vincente, osannata dalla critica ma non dal pubblico, e che troverà terreno fertile nuovamente solo nell’ultimo “Higher Truth” dopo le peregrinazioni elettro-dance di “Scream”. Il suo punto più basso.
Cosa possa aver portato un uomo, un artista, un frontman tra i più geniali e lungimiranti dei nostri tempi a scegliere di premere il tasto “esc” non potremo mai saperlo: dando pure per buona la tesi dei suoi familiari e del suo legale, che descrivendo quegli ultimi tragici attimi attribuiscono la colpa della sua morte all’Ativan (qui Lorazepam). Chissà che alle volte la genesi di tutto questo non vada ricercata proprio nel merito, nelle qualità che riconosciamo a chi, come Cornell, nel cantare la vita di tutti i giorni ad un certo punto possa aver scelto di comportarsi come il superuomo di Nietzsche che con il peso di tutto il mondo sulle spalle, decide di lasciarsi andare ad ogni tipo di pulsione (e la morte è una di queste) per vivere nel mondo trascendentale, quello della felicità propria dell’essere che non è, ma vuole.
Così anche per Chris il peso delle sue canzoni può essere diventato insostenibile, dopo averle cantate e ricantate un’ultima volta e averne, forse, definitivamente colto il senso. “But (s)he died just like suicide” (cit.)