WONDER WOMAN di Patty Jenkins. Con Gal Gadot, Chris Pine, Robin Wright. Usa 2017. Durata: 121’ Voto: 2,5/5 (DT)
Scherza coi santi ma lascia stare i fanti. La Wonder Woman formato cinematografico, piccola guerriera nel regno parallelo delle Amazzoni, tutta grinta e femminismo sempliciotto, viene catapultata per un deplorevole fenomeno di rifrazione dentro al mondo degli uomini dove si sta combattendo la prima guerra mondiale. Diana finirà con un manipolo di soldati franco-britannici alla Bastardi senza gloria tra le trincee belghe per uccidere il pericolosissimo generale tedesco Luddendorff – che lei nella sua ingenuità da spazio parallelo crede il dio del male Ares – intento a gasare nemici e amici per affermare la sua delirante malvagità. La tanto attesa versione grande schermo dell’eroina femminile e femminista lascia basiti per schematica ed elementare concettualità di genere ed etica (la ragazzona è un’idealista pura contro la codardia dei generali, e asfalta i pregiudizi maschilisti dell’epoca), ma non tradisce del tutto le aspettative dal punto di vista della dimensione dell’avventura e dell’azione. La prima parte nel regno delle Amazzoni tutte bellone spilungone corrucciate e cazzute è infatti uno sfilacciato e retorico trip alla Barbarella dal budget sfrontato. Mentre il trapasso tra gli orrori della prima guerra mondiale ha un ritmo più consono alla media dei film da supereroi: equilibrio algebrico tra eccentricità di villain, comprimari buoni, e della fascinosa forza di una Gadot innocente sballottata tra costumini succinti e abiti strettissimi di inizio novecento che coprono ironicamente come un burqa i fronzoli guerrieri. Sorprende qui come nell’ultimo Star Wars la grintosa trasformazione mascolina dell’eroina femminile, e del relativo nuovo (dis)equilibrio nella guerra tra i sessi: vince lei in tutto e per tutto.
BAYWATCH di Seth Gordon. Con Dwayne Johnson, Zac Efron, Alexandra Daddario. Usa 2017. Durata: 116’ Voto: 1/5 (DT)
Spiaggia di Emerald Bay, California. Il bagnino Mitch, monumentale e muscoloso re della battigia, rimpolpa la sua squadra di salvataggio con uno stupidotto campione di nuoto caduto in disgrazia e un “tubby” non proprio aitante ma esperto informatico. Sfrecciano correndo sul lungomare anche le colleghe in costume (piuttosto coprente) e un giro losco di droga che Mitch prova a sventare. Non poteva che arrivare a cotanto lo script della trasposizione cinematografica dell’ennesimo telefilm anni ottanta tra i meno quotati (se non per la presenza di Pamela Anderson). Due lunghe ore di battutine triviali su attitudini e misure maschili dette da e tra maschi (oseremmo dire sterili vista anche la mancanza di “sguardo” sulle bellezze femminili), messa in scena formalmente e tecnicamente modestissima, ralenti buffoneschi, scivoloni plateali e ignoranza muscolare alla Jackass, Baywatch è una di quelle allegre scampagnate del post-demenziale Usa che osserva presuntuosamente i fratelli Farrelly dallo specchietto retrovisore e investe la premiata ditta ZAZ (Zucker-Abrahams-Zucker) senza fermarsi a soccorrerli. Cameo di David Hasselhoff e Pamela Anderson alquanto inutili.