Una trentina di morti e un numero imprecisato di feriti in Egitto , 22 morti e decine di feriti a Manchester. I colpi di coda di un jihadismo dato per morente stanno mettendo a dura prova i servizi di sicurezza di mezzo mondo e interrogano la nostra opinione pubblica. Per quanto riguarda il Paese attraversato dal Nilo, le domande assomigliano in realtà a un pesantissimo atto d’accusa nei confronti di un regime militare di cui il caso di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso tra il gennaio e il febbraio del 2016, ha rivelato la natura particolarmente sanguinaria. Sotto il governo di Abd al-Fattah al-Sisi, al potere dal 2013, è molto facile essere arrestati o semplicemente fatti sparire.
Nonostante uno stato d’emergenza ultratrentennale, l’Egitto continua a subire le incursioni del jihadismo. La realtà paradossale è quella di un regime che usa lo spettro di un nemico esterno e senza volto per sostituire il consenso – di cui evidentemente dispone sempre meno – con il terrore. Gli sforzi del governo di Al-Sisi sono più che altro finalizzati a scoraggiare qualsiasi fumus di opposizione in una popolazione ridotta allo stremo da una crisi economica di cui è complesso persino rintracciare l’inizio. Il caso Regeni ha scoperchiato il caso Egitto, creando – almeno così si spera – imbarazzo nei governi occidentali che ad Al-Sisi si sono affidati per combattere il terrorismo di matrice fondamentalista e persino per ridisegnare la geografia politica del Mediterraneo (così Matteo Renzi, quando era presidente del Consiglio). Dietro l’attentato di Manchester si intravedono, invece, leve terroristiche che si sono fatte le ossa in Libia con l’opposizione a Gheddafi, riottoso ex alleato di una parte dell’Occidente, eliminato con una guerra.
Riflettere sull’efficacia della lotta al Califfato e al jihadismo, in generale richiederà uno sforzo notevole agli esponenti delle cancellerie europee. Innanzitutto, occorrerà liberarsi da alleati caratterizzati da riflessi condizionati efficacemente descritti da Dalia Mogahed, consulente della Casa Bianca quando il presidente era Barack Obama: “Dopo l’11 settembre, chi detiene il potere, dall’Egitto all’Uzbekistan, usa lo spauracchio di Al Qaida e del terrorismo per definire “estremista” ogni tipo di opposizione, per controllare le elezioni e legittimare il proprio potere autoritario”. Era il 2007 e Mogahed citava l’esempio di Hosni Mubarak ma, se si sostituiscono la sigla di Al Qaida con quella dell’Isis e il nome di Mubarak con quello di Al-Sisi, il ragionamento continua a filare.
L’Occidente ha le carte in regola per reclamare con autorevolezza il rispetto dei diritti umani da parte dei propri alleati? Non del tutto. Documenti declassificati della Cia nel 2016 hanno rivelato ad esempio come persino medici e psicologici abbiano coperto o addirittura agevolato la tortura nei confronti di sospetti terroristi. La pratica, aborrita nei sacri testi di Verri e Beccaria, ha trovato spazio in un santuario della cultura occidentale fino a poco tempo fa considerato sicuro: quello della professione medica, basata sul giuramento di Ippocrate. Del resto, il ricorso a questo tipo di maniere forti era implicito nella pratica delle cosiddette extraordinary renditions (consegne straordinarie), che delegava ai paesi di provenienza il lavoro sporco sui sospettati di terrorismo che erano stati rapiti in Occidente e consegnati a carnefici della stessa lingua.
In questo cruento sistema di recapiti postali è stata, com’è noto, coinvolta anche l’Italia, oggi ancora priva di una legge sulla tortura. Per rendere efficace la lotta al terrorismo, occorre pretendere il rispetto dei diritti umani ovunque e, in particolare, nei Paesi alleati, ma è difficile chiedere ad altri quello che noi stessi non siamo in grado di garantire. Forse questa è la vera lezione del caso di Giulio Regeni. Tutelarne la memoria non significa solo assicurare alla giustizia i suoi assassini e i loro mandanti, ma anche ancorare la nostra politica estera al senso di umanità.