Dal 2008 il finanziamento dell’università italiana è sceso del 20%, così come sono diminuiti i docenti; e l’Italia spende 6 miliardi e mezzo per l’intero sistema universitario nazionale, contro i 26 della Germania (dato 2015, fonte Miur). Ma c’è un’attività che riceve ancora una grande attenzione a tutti i livelli di governo. È la costruzione di nuove sedi, ideate senza alcun modello condiviso di università futura, ma sorretti da motivi contingenti, per lo più finanziari. In particolare, il motore primo appare l’insufficiente o addirittura assente interesse da parte di imprese private a insediarsi in certe aree. E si tratta di aree imposte all’accademia senza neppure un benchmarking di possibili alternative, in modo affatto episodico ed estraneo a qualunque forma di pensiero sul modello dell’università di domani.
In un paese dove molte scuole e università sono carenti sotto il profilo del rischio sismico, nonché della ordinaria e straordinaria manutenzione, c’è proprio bisogno di spendere quel poco che abbiamo solo per saziare l’insaziabile voglia del mattone accademico?
L’università è prima di tutto un luogo fisico. È un corpo di studiosi, ciascuno dedicato a un certo ambito del sapere, che funziona come una impresa cooperativa verso la ricerca di conoscenza. Essi vivono stabilmente in una reciproca prossimità e, se si trascurano la qualità e le relazioni di questo luogo fisico, si perderebbe la fondamentale essenza di un’università. E basta visitare il sito americano dei college urbani più belli per rendersene conto. A ragione, molte università italiane potrebbero aspirare a essere inserite in questa collezione, dove dubito che potrebbero mai entrare progetti di qualità imbarazzante come quello milanese di Rho o quello genovese di Erzelli. La spesa prevista, in tutto più di 600 milioni di euro, vale sette anni di finanziamento alla ricerca italiana nel suo complesso. Una parodia della Genesi biblica, sette anni di vacche grasse per alcuni (pochi) e sette anni di vacche magre per tutti gli altri.
Perché college urbani? Se la scuola è un fondamentale centro del quartiere, l’università si dovrebbe aprire il più possibile alla città. In Italia, paese ai minimi storici nell’alta formazione secondo i dati Ocse, le lezioni sono pubbliche e chiunque può fruire delle biblioteche universitarie. Tutto ciò va valorizzato e incentivato, ripensando esplicitamente molti spazi universitari come spazi aperti alla città. Anche per colmare il nostro gap rispetto agli altri paesi europei che, con le politiche universitarie del nuovo millennio, è andato sempre crescendo: se non si fa un serio programma di istruzione permanente questo paese correrà il rischio di scivolare verso lo status di nazione semi-avanzata a vocazione neocoloniale.
Manca una voce nel dilemma se investire in nuove cattedrali periferiche di “produzione di ricerca” o nella coltivazione di una tradizione millenaria della conoscenza. Anzi, due. La prima è quella degli studenti, spesso atterriti dal mito neoliberista dell’università come produttore di capitale umano; e magari fosse forza lavoro, giacché il lavoro non lo trovano, soprattutto se qualificato ad applicare gli studi che hanno fatto. La seconda è quella dei docenti che, molto spesso mugugnano sottovoce se genovesi o ti squadrano imbronciati ma silenti se meneghini; ed è un silenzio favorito da due fattori: la prospettiva della pensione e il sistema di governo accademico. La prima li potrà esonerare dal futuro, per via dei tempi biblici delle opere pubbliche italiane che, quando non restano incompiute, aspirano a competere con i fasti del Mose veneziano. A sua volta, lo stile aziendalista che si è imposto selvaggiamente nell’università da parecchi anni, sotterra di fatto qualunque afflato democratico all’interno di questa istituzione.
Ho riletto da poco un articolo fondamentale che si può liberamente estrarre in rete: «Academic freedom» pubblicato su Science il 5 luglio 1907 da Charles W. Eliot, presidente di Harvard. L’articolo parla di libertà accademica dei professori e di libertà accademica degli studenti. E, sul governo dell’istituzione accademica, afferma che «il principio dell’autorità è poco applicato in un buon governo universitario. Viene tributato rispetto per l’età, se rimane vitale, e per l’esperienza, specialmente se si tratta di un’esperienza intensa; ma la pura anzianità conta molto poco, e l’influenza di un amministratore è sostenuta dalla sua persuasività o dal potere di discernere una buona ragione per ogni azione che propone, dichiarandola poi in modo convincente». I Rettori e i Senati Accademici che, indossati gli abiti dell’amministratore delegato e dei consiglieri di amministrazione, assecondano o, al peggio, promuovono la corsa al mattone accademico sotto la spinta della crisi finanziaria e di una politica invadente, si allontanano sideralmente da uno stile di governo persuasivo, ragionevole e convincente.