“Sono dispiaciutissima e quando ho saputo che il terzo attentatore di Londra era proprio Youssef Zaghba sono rimasta basita, non me lo sarei mai aspettato. Non penso che avrei potuto fare niente per fermarlo, in ogni caso io ho fatto solo il mio lavoro. E lo rifarei perché credo nello stato di diritto“. Ha ripetuto questa frase tutto il giorno a tutti i giornalisti che l’hanno chiamata Silvia Moisé l’avvocato che ha permesso al giovane italo-marocchino di riavere il suo telefono, le schede sim e due iPad (il secondo era della madre) dopo il sequestro avvenuto il 15 marzo del 2016 dopo un controllo all’aeroporto di Bologna.
Quel giorno il 22enne, componente del commando che ha compito l’ultima strage a Londra, voleva partire per la Turchia con biglietto di sola andata e uno zainetto. Insospettiti gli uomini della Polaria lo avevano bloccato e la procura di Bologna lo aveva iscritto nel registro degli indagati per terrorismo internazionale. Su di lei però non erano emersi elementi significativi: il suo nome era stato comunque segnalato all’intelligence di Marocco e Gran Bretagna.
Il decreto di sequestro non era motivato in modo completo e mancava di alcuni elementi quindi il Riesame non aveva potuto fare altro che annullare disponendo la restituzione degli oggetti: “Lo impugnai – racconta a diversi quotidiani la penalista – per omessa motivazione e omessa indicazione della condotta penalmente rilevante al tribunale del Riesame e di fatto fu annullato il decreto di convalida per vizi formali. L’accusa era il 270 bis, quindi terrorismo internazionale”. Indagine che non è stata ancora archiviata.
“Non dava affatto l’impressione di essere un esaltato ma forse non ha dimostrato a me quella che era la sua vera natura” spiega Moisè. Nella foto di Facebook dell’avvocato si vedono le foto profilo con bandiere di Belgio e Francia quando c’erano stati gli attentati e l’immagine di copertina è una foto dei giudici Falcone e Borsellino. “Mai avrei potuto immaginare una cosa simile. Sono basita e addolorata, anche se penso sinceramente che non avrei potuto fare nulla. Lui con me non si è mai aperto. Essendo donna e giovane, non era contento di avermi come avvocato. E non collaborava granché. Zaghba mi disse solo che non era un terrorista e che nei suo telefonini non c’era nulla di preoccupante. Alla polizia aveva detto di voler andare in Turchia a fare il turista, non il terrorista. Avessi avuto qualunque sospetto, ovviamente l’avrei riferito all’autorità giudiziaria. Era mio dovere farlo e l’avrei fatto. Ma proprio non ne ho avuti e mi fa una certa impressione aver incontrato più volte quel giovane senza capire chi veramente fosse”. Il rammarico dell’avvocato, che ha anche una specializzazione in criminologia, è di non aver afferrato nello sguardo di quel ragazzo educato e silenzioso un indizio che potesse trasformarsi in un terrorista.