Le milizie iraniane combattono Daesh in Siria e Iraq e in Afghanistan sostengono i talebani in chiave anti-Stato islamico. Per questo il Paese è da tempo nelle mire di Al Baghdadi. Ora, spiega Francesca Manenti, analista del desk Asia per il Cesi, "è possibile che nelle prossime ore il governo di Rouhani si scagli contro l’Arabia Saudita e che si polarizzi il contrasto tra le due grandi potenze del Golfo"
Lo Stato Islamico ha colpito dove fino a oggi non era mai riuscito ad arrivare, nel cuore politico e spirituale del suo nemico numero uno: l’Iran. Il Paese, impegnato ormai da più di due anni in una campagna militare per sconfiggere i militanti di Daesh in Siria e Iraq, è sempre stato un fortino inespugnabile per le bandiere nere, più di molti Paesi Europei. Il duplice attentato del 7 giugno al Parlamento e al Mausoleo del padre della rivoluzione del 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeyni, rappresenta il primo colpo messo a segno da una campagna di propaganda anti-iraniana che i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi portano avanti già da mesi. Obiettivo: far tremare l’impenetrabile Repubblica degli ayatollah.
“L’Iran rappresenta il principale nemico di Daesh su tutti i fronti – spiega a Ilfattoquotidiano.it Francesca Manenti, analista del desk Asia per il Centro Studi Internazionali (Cesi) – Dal punto di vista operativo, perché dal 2014 i Guardiani della Rivoluzione, prima, e i reparti speciali dell’esercito, poi, combattono sul campo contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq. Dal punto di vista politico, perché Tehran porta avanti i suoi piani egemonici nella regione influenzando conflitti e la vita politica di alcuni Paesi. Dal punto di vista religioso, perché il Paese rappresenta la capitale mondiale dell’Islam sciita al quale l’estremismo salafita (di stampo sunnita, ndr) di Isis si contrappone. Non va dimenticato che l’Iran ha fatto della lotta a Daesh uno dei suoi obiettivi primari, sia per garantire la propria sicurezza lungo il confine iracheno che, con il sostegno a Bashar al-Assad, per mantenere viva la linea di collegamento tra Teheran, Damasco e il Libano degli Hezbollah”.
Un impegno che ha reso la Repubblica Islamica uno dei rivali più coinvolti nella lotta allo Stato Islamico e, quindi, tra i più odiati dai jihadisti in nero. Non a caso, la propaganda del Califfato in questi anni ha sempre messo i ritratti in primo piano della Guida Suprema, Ali Khamenei, del presidente e del ministro degli Esteri iraniani, Hassan Rouhani e Javad Zarif, all’interno dei video e delle riviste che annunciavano la sconfitta dei “nemici dell’Islam”. Questa retorica in chiave anti-iraniana si è però intensificata negli ultimi mesi: “Il 2017 ha registrato un sensibile aumento della propaganda contro Teheran sui canali gestiti dagli uomini di Daesh – continua Manenti – i messaggi del Califfato, compresi i numeri del suo magazine Rumiyah, sono stati tradotti sempre più spesso in farsi (il persiano, ndr) e a marzo è stato pubblicato il primo video in lingua persiana che invocava un attacco dei soldati del Califfato contro l’Iran, annunciando anche la nascita di un nuovo battaglione con base in Iraq: la Brigata Salman al-Farisi”.
Ciò che sorprende è però la portata dell’attacco messo a segno da Isis. I terroristi sono riusciti a colpire quasi contemporaneamente due luoghi tra quelli con il più alto valore simbolico e livello di sicurezza dell’intero Paese. Lo hanno fatto con un commando di otto persone, secondo quanto riferiscono le fonti di sicurezza iraniane, armati di fucili Ak-47, granate e cinture esplosive. A questo vanno aggiunti altri attacchi sventati nell’arco della giornata, secondo fonti di polizia, e un blitz dell’antiterrorismo in mattinata, sempre a Teheran. “Lo Stato Islamico – spiega l’analista – non ha, in Iran, la forza e una rete organizzativa tali da permettergli di sferrare un attacco di questa portata. In passato c’era stato un tentativo di creare una prima cellula embrionale al confine tra Iran e Iraq, ma con scarsi risultati e con un piano di attacco a Tehran che è stato sventato all’inizio di questo anno”, mentre una serie di attacchi suicidi nella capitale erano stati bloccati, secondo quanto riportato allora dai servizi di sicurezza nazionali, durante il Ramadan 2016.
È a questo punto che la nuova brigata presentata nel video propagandistico del Califfato assume maggiore importanza: “Secondo le scarse informazioni che ancora oggi si hanno – continua Manenti – la Brigata Salman al-Farisi sarebbe composta da un misto di miliziani di etnia Baloch e curda, da anni impegnati in attività di insurrezione nel Paese. Un loro coinvolgimento spiegherebbe anche l’alto grado organizzativo dell’attacco, cancellando l’ipotesi di un coinvolgimento del Mojahedin-e Khalq (Mek) che per la sua natura laica e le mire politiche difficilmente poteva dare appoggio a Isis. Inoltre, questo è un gruppo che negli anni, e ancora oggi, porta avanti la sua politica grazie alle donazioni internazionali, anche in Europa e negli Stati Uniti. Una sua collaborazione con lo Stato Islamico metterebbe in imbarazzo molti Paesi”.
Con questo attentato si incrina anche il piano del governo iraniano di mantenere due zone cuscinetto in funzione anti-Isis al confine occidentali con l’Iraq, grazie alla presenza dei curdi, e orientale con l’Afghanistan, tramite accordi di puro interesse con i Taliban afghani facenti capo alla Shura di Quetta. Rischia inoltre di polarizzarsi lo scontro tra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia nel Golfo. Episodi come questo sono stati usati, in passato, per lanciare accuse contro l’avversario, come successo dopo l’esecuzione in Arabia Saudita dell’Imam sciita Nimr al-Nimr o per le polemiche dopo gli incidenti avvenuti durante il pellegrinaggio alla Mecca in occasione dell’Hajj, senza dimenticare le reciproche accuse di sostegno al terrorismo.
Dopo il duro attacco di Donald Trump alla Repubblica Islamica e l’appoggio dimostrato dal presidente Usa alla dinastia degli al-Saud, dopo le parole del Ministro degli Esteri Saudita, Adel Jubeir, che, riporta al-Arabiya, avrebbe invocato una punizione per Tehran, oggi le agenzie riportano il grido ripetuto dai deputati iraniani nel corso dell’attentato al Parlamento: “Morte all’America. Morte al suo servo, l’Arabia Saudita”. Parole alle quali sono seguite quelle di Ali Reza Jalali, docente presso l’università islamica Azad di Shahrud: “L’Arabia Saudita sta perseguitando in modo pesante l’opposizione interna sciita, nei giorni scorsi ha interrotto bruscamente i rapporti con il Qatar e oggi l’attentato. Se tre indizi fanno una prova possiamo dire che c’è lo zampino di Ryad”, ha commentato.
“Certamente – conclude Manenti – il rilancio del dialogo tra l’amministrazione Trump e i reali sauditi, contemporaneo all’allontanamento di Washington da Teheran, ha isolato politicamente l’Iran. È possibile che nelle prossime ore il governo di Rouhani si scagli contro l’Arabia Saudita e il rischio è quello di una polarizzazione dello scontro tra le due grandi potenze del Golfo”.