Il Sole 24 Ore ha presentato ieri un illuminante confronto tra i redditi dichiarati nel 2016 e quelli pre-recessione. Come prevedibile, la crisi ha ridotto i redditi degli italiani in due province su tre. Colpisce l’entità del dato, in termini di valore assoluto, oltre alla sua ampia distribuzione sul territorio. Se, da un lato, il reddito medio nel paese risulta calato dell’1,32%, il reddito totale flette del 4,4%. Con picchi di calo non solo in Calabria e Sicilia, ma anche in Molise e nel tarantino e in diverse altre regioni italiane del centro-Nord: Piemonte, Liguria, Toscana, Marche. Le flessioni più ampie a Isernia, con -10,3% e a Biella, con -9,3%.
È la fotografia di un paese impoverito dalla crisi in modo implacabile. D’altronde, il rapporto Caritas sulla povertà dello scorso ottobre lasciava ben presagire quali fossero i margini di impoverimento diffuso nel paese (nel 2015 versavano in povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, per un totale di 4 milioni 598 mila individui). Il dato è perfettamente sovrapponibile con quello de Il Sole 24 Ore, in quanto “dal 2007, anno che anticipa lo scoppio della crisi economica (che continua a palesare ancora i propri effetti), la percentuale di persone povere è più che raddoppiata, passando dal 3,1% al 7,6%”.
A mio modesto avviso, una rara soluzione di continuità dei sette anni di crisi risiede proprio nell’ultimo rapporto Svimez, in base al quale, il sia pur mite segnale di ripresa dell’economia meridionale rappresenterebbe un chiaro segnale della sua resilienza, e, soprattutto, un’opportunità per tutto il paese. Svimez sottolinea che, sebbene diversi fattori contingenti possano aver influito sulla maggiore crescita del Sud rispetto alle altre macroaree del paese, bisognerebbe cogliere qualche insegnamento dal dato. La maggior quota di investimenti pubblici nel Mezzogiorno, ad esempio dovuti alla chiusura del ciclo del 7° Programma quadro, ha sicuramente giocato a favore, dimostrando, anche, la reattività dell’economia meridionale. Una maggior dose di investimenti al Sud è da anni auspicata da economisti come Guglielmo Forges Davanzati, precisando che debba trattarsi di investimenti pubblici perché, a suo avviso, gli investimenti privati risentono di aspettative pessimistiche e perché gli investimenti pubblici, attraverso effetti moltiplicativi, attivano anche investimenti privati accrescendo gli sbocchi.
La tesi trova valido sostegno anche nel rapporto Svimez 2016: “La ripresa della domanda interna nel Mezzogiorno ha un effetto positivo sulla crescita di tutto il paese: lo sviluppo del Centro-Nord è infatti legato in buona misura anche all’andamento favorevole dell’economia meridionale, data la forte integrazione tra i mercati delle due parti del Paese. Recenti analisi della Banca d’Italia mostrano come il Sud rappresenti un mercato di sbocco fondamentale della produzione nazionale, pari a oltre un quarto di quella del Centro-Nord, oltre tre volte il peso delle esportazioni negli altri paesi della Ue. Inoltre, circa il 40% della spesa per investimenti al Sud attiva produzione nel Centro-Nord. Ciò vuol dire che il Paese intero rischia di non seguire il ciclo positivo internazionale se a un’auspicabile ripresa delle regioni del Centro-Nord non si affianca in modo duraturo e non estemporaneo quella delle regioni meridionali”.
Il Paese si salva se si mette mano, sul serio, al divario Nord-Sud.