C’era una volta la Terza pagina. Era, ed è, la più importante nello sfoglio del giornale: allora era dedicata alla cultura, senza fotografie, con lunghi pezzi, costituiva un segnale del prestigio del quotidiano che la ospitava. Era l’alba del Secolo breve: da allora molto inchiostro è stato versato, molte cose sono cambiate. E non solo nella collocazione delle pagine culturali all’interno dei giornali. Guardate cosa scrive il professor Tomaso Montanari ne La madre di Caravaggio è sempre incinta (Skira): “In Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica a escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa”.
Un’altra obiezione diffusa è che il giornalismo culturale si sia spettacolarizzato, sempre in cerca di notizie sensazionali. Il caso più recente è la caccia all’identità della misteriosa scrittrice di culto Elena Ferrante, oggetto di inchieste sui maggiori quotidiani italiani, dal Sole 24 ore al Corriere della Sera: due approcci completamente diversi alla vicenda che infatti portano a conclusioni differenti. C’è sempre meno spazio per le recensioni e per il “dibattito culturale”, sempre più per gli scoop e, appunto, gli eventi. Sarà vero? In parte sì, però bisogna dire che la cultura non è un’isola, ma un mondo che si intreccia con altri. Il caso della fusione tra Mondadori e Rizzoli è un esempio emblematico, così come l’ultima guerra dei Saloni del libro, diventata una vera e propria disfida campanilistica tra le città di Torino e Milano. Il premio Strega, il Palio di Siena dell’editoria italiana, e il Festival di Sanremo (dove s’intrecciano spettacolo e politica) sono, anche, un formidabile specchio dei rapporti di potere, dei tic e dei vezzi dell’Italia tutta.
Al corso del 10 giugno “Sanremo, editoria, salotti: l’altro lato del potere” abbiamo invitato Gian Arturo Ferrari, presidente di Rizzoli libri e vicepresidente di Mondadori libri, non solo perché ha fatto a lungo il professore e ha molte cose da insegnare e da raccontare. Dello Strega, per esempio, dice: “E’ il più importante riconoscimento letterario italiano e io credo che abbia sbagliato, nel corso delle sue numerose edizioni, poco e solo per omissione. Voglio dire che alcuni dei più importanti scrittori italiani – Calvino, ma anche Gadda, Pasolini – non hanno ricevuto il premio. A parte questo, secondo me ci ha quasi sempre azzeccato. Mi glorio di aver trasformato in una scienza il pacchetto di voti. La sua bellezza è che è fondato stabilmente sul tradimento, è quello che lo rende interessante: è un’enclave, un insieme di votanti chiuso, ci conosciamo tutti molto bene. Se lei si presenta al premio, io non le direi mai “non la voto”. Il guaio è che lo direi a tutti gli altri concorrenti. Alla base ci sono menzogna e tradimento. Premiare la virtù è molto meno intrigante. Io ho introdotto la fondamentale distinzione tra voti sicuri e voti non sicuri. Su alcuni ci si poteva giurare, su altri c’erano vaghe possibilità. Tutta la politica andava fatta sui primi, per consolidarli oltre ogni ragionevole dubbio”.
E dire che c’è stato un tempo in cui i premi letterari venivano rifiutati! “Ritenendo definitivamente chiusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Mittente: Italo Calvino (cui è stato intitolato, post mortem un premio letterario, seppur per esordienti). Destinatario: il Premio Viareggio. Siamo alla fine degli Anni 60, premiopoli è al suo apice. Un telegramma – racconta Andrea Kerbaker nel suo Breve storia del libro – arriva anche nel 1975 al Premio Bagutta. “Lo firma il vincitore di quell’edizione, Tommaso Landolfi, autore di proverbiale riservatezza, che usa soltanto tre parole: ‘Deploro mia assenza’. Se neppure letterati della loro autorevolezza sono riusciti a sconfiggere premiopoli, non credo che lo farà mai nessuno. Con grande soddisfazione dei reparti commerciali e di marketing”. Del resto, George Bernard Shaw, che rifiutò il Nobel per la letteratura così come Sartre e Pasternak, diceva che ad Alfred Nobel si poteva perdonare di aver inventato la dinamite, ma non il premio che porta il nome. Oggi nessuno rifiuta i premi: lo Strega vale almeno 40mila copie, solo per la fascetta. Dunque pecunia (e cultura) non olet.
Proveremo a tracciare un bilancio sullo stato di salute del giornalismo culturale, attraverso una serie di casi, provando a spiegare come si procede di fronte a temi a volte complessi (come la fusione Mondadori-Rizzoli). Secondo Guido Ceronetti, per esempio, la febbre è alta sia sul fronte dei giornali, che su quello della produzione letteraria: “Sono nel giornalismo da circa settant’anni. I giornali vorrei che si salvassero, però con questi giovani giornalisti che usano una lingua sempre più standard, spersonalizzata, l’uniformità trionfa. Non è che sono scritti male, sono scritti uguale. Leggo pochissimi scrittori contemporanei, mi fermo a Guido Piovene. L’ho anche conosciuto e gli ho voluto bene. Cesare Pavese poi l’ho amato e mi ha interessato. Anche il Pavese poeta ha toccato corde che sono anche mie, come il rapporto città-campagna. ‘Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via’, scrive ne La luna e i falò. Quando poi dice: ‘Un paese vuol dire non essere soli’, lo penso anch’io perché abito in un paese. Detto questo, Il mestiere di vivere è un capolavoro della letteratura italiana”. Tutto il contrario di quello che pensa Gian Arturo Ferrari, che all’ultimo Salone del libro di Torino ha tenuto una lectio magistralis sui mestieri del libro in cui ha definito Pavese uno scrittore non indimenticabile, ma un formidabile uomo di editoria (come dimostra il volume Officina Einaudi, che raccoglie la corrispondenza editoriale di Pavese). Quanto alla nostalgia per le epoche d’oro della letteratura, in un’intervista al Fatto ha detto: “Le teorie della decadenza non mi hanno mai convinto fin da quando ero giovane: allora si tuonava contro la crisi della borghesia e il ‘capitalismo maturo’, sottintendendo che fosse sul punto di cadere come una mela e di marcire. Mi sembra che non sia andata proprio così, no?”.
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