L'ANALISI - Il Direttore del Programma sull'estremismo alla George Washington University: "I motivi sono due: stiamo innanzitutto parlando di tre tra le Regioni più popolose d’Italia e, inoltre, la presenza di reti di radicalizzazione attira inevitabilmente l’attenzione dei soggetti provenienti da fuori e interessati a farne parte"
Dopo l’uccisione dell’attentatore di Berlino Anis Amri, a Sesto San Giovanni, il passaggio dal porto di Bari di Salah Abdeslam, una delle menti della strage di Parigi del 13 novembre 2015, e l’accoltellamento alla stazione Centrale di Milano da parte di Ismail Tommaso Hosni, l’Italia torna protagonista della cronaca legata ad atti di terrorismo di matrice jihadista. La madre di Youssef Zaghba, il terzo membro del commando jihadista che ha colpito al London Bridge e al Borough Market di Londra, vive a Bologna ed è da lì che, nel marzo 2016, l’attentatore ha cercato di partire con un volo per la Turchia, probabilmente diretto in Siria. “È indubbio – commenta a Ilfattoquotidiano.it Lorenzo Vidino, Direttore del Programma sull’estremismo alla George Washington University – che l’Emilia Romagna sia uno dei centri del jihadismo italiano, insieme a Lombardia e Veneto. Lo dicono i numeri. Ma attenzione, è sbagliato pensare che il nostro Paese rappresenti una base logistica europea: qui i terroristi vengono ricercati ed espulsi”.
Negli ultimi due o tre anni, l’Emilia Romagna è stata al centro delle cronache che riguardano l’estremismo islamico.
“Se si guardano i dati relativi ad arresti, espulsioni e foreign fighter – continua Vidino – notiamo che l’Emilia Romagna, insieme a Lombardia e Veneto, presenta i numeri più alti. Possiamo quindi dire che in queste regioni più che in altre esistono centri di radicalizzazione che assumono forme diverse: dalla ‘moschea’ con Imam radicale, come succede più spesso nel nord-est, all’attività commerciale o il gruppo di amici estremisti che caratterizzano più la piazza ravennate. I motivi sono due: stiamo innanzitutto parlando di tre tra le Regioni più popolose d’Italia e, inoltre, la presenza di reti di radicalizzazione attira inevitabilmente l’attenzione dei soggetti provenienti da fuori e interessati a farne parte”.
Secondo l’analista, autore del report Il jihadismo autoctono in Italia (2014), la realtà italiana non ha subito grandi cambiamenti rispetto a qualche anno fa, visto che non si è assistito a un forte incremento nel numero dei foreign fighter e dei soggetti radicalizzati. Una novità, anche se i casi sono al momento soltanto due, è rappresentata dal ruolo delle seconde generazioni: “Mi ha incuriosito il fatto, ma non ci sono certo i numeri sufficienti per fare un’analisi, che nel giro di tre settimane siano stati coinvolti in atti di terrorismo, quello alla Stazione di Milano Centrale e quello di Londra, due ragazzi italiani di seconda generazione cresciuti in famiglie miste. Quella che è una cosa normale in Paesi come Francia, Germania o Inghilterra, qui si è verificata solo adesso”.
Al-Muhajiroun, il serbatoio dell’estremismo europeo a lungo sottovalutato dai servizi segreti
Dopo l’attacco di Londra, l’intelligence e il governo britannico sono finiti nuovamente al centro delle polemiche per la mancata prevenzione. I critici hanno sottolineato che ben due dei tre attentatori erano conosciuti dalle autorità e in passato avevano avuto problemi con la giustizia proprio per fatti legati al terrorismo. Khuram Butt era addirittura finito nel reportage di Channel 4 Il jihadista della porta accanto ed era affiliato a uno de gruppi estremisti britannici nati dopo lo scioglimento del movimento al-Muhajiroun. Dello stesso gruppo, dal quale hanno preso origine altri movimenti come Islam4Uk, al-Ghurabaa e The Saviour Sect, facevano parte predicatori radicali come Anjem Choudary e il nuovo Jihadi John, Siddharta Dhar, conosciuto anche come Abu Rumaysah. “L’incapacità di prevenire questo ultimo attacco – conclude Vidino – non può essere considerata responsabilità esclusiva dell’intelligence britannica. Mi sento quasi di dire che il loro merito è quello di essere riusciti a individuare prontamente questi soggetti. Per passare all’azione, però, sappiamo bene che servono risorse che probabilmente le forze di sicurezza britanniche e londinesi non hanno e si devono verificare le condizioni sufficienti per giustificare un’operazione secondo la legge britannica. Una cosa si può però imputare ai servizi segreti inglesi: aver sottovalutato per anni gruppi come al-Muhajiroun che, oggi, rappresentano uno dei più importanti serbatoi dell’estremismo jihadista europeo”.