Eccoci, anche quest’anno siamo arrivati agli ultimi giorni di scuola. Per un maestro che ha accompagnato i suoi ragazzi fino alla quinta della scuola primaria sono i momenti più belli ma anche i più difficili. Ogni volta, arrivato all’ultima lezione, abbasso gli occhiali da sole sul mio viso per non mostrare le lacrime che mentre scrivo questo post comunque rigano il mio volto. Chi non fa questo mestiere non può capire. Penserà che sia solo stupida retorica.
In quest’ultimi giorni guardi i tuoi ragazzi, rivedi la prima volta che sei entrato in aula: ti osservavano con occhioni curiosi, sgranati, volevano intuire chi saresti stato per loro, che cosa avresti loro insegnato. Ora è arrivato il momento più bello, quello del taglio ombelicale. Sai che partono, che andranno per nuove strade e che in quella sporta hanno molti strumenti che gli hai dato tu. Ogni volta lascio loro un messaggio:
Cari ragazzi, mi scuso per tutte quelle volte che non sono stato all’altezza, per quelle volte che sono entrato in classe senza il sorriso. Vi avevo promesso che vi avrei insegnato i Romani, gli Ebrei, la Sicilia e le Marche divertendoci perché una scuola dove si impara senza il piacere di apprendere non è scuola. Ho provato a insegnarvi non a leggere ma ad amare la lettura; non a scrivere e a parlare ma ad usare la parola per difendervi e per difendere chi non ce l’ha.
Ogni giorno insieme, prendendo in mano il quotidiano, abbiamo spalancato le finestre della nostra aula per ascoltare l’eco delle bombe che arrivavano dalla Siria; non abbiamo chiuso gli occhi di fronte a quanto accadeva negli Stati Uniti d’America con l’elezione di Donald Trump. Ogni volta mi sono messo in gioco: non vi ho dato una risposta ma l’abbiamo cercata insieme. E così ogni mattina leggendo il calendario della memoria appeso in classe, abbiamo fatto la nostra “preghiera” laica ricordando e parlando di un evento della storia, ricordando Aldo Moro, Peppino Impastato, Gramsci o la Guerra dei Sei Giorni.
Ho provato ad insegnarvi a guardare negli occhi le persone, a non dare la monetina al mendicante ma a volgere lui lo sguardo e chiedergli: “Da dove vieni? Come ti chiami? Hai figli?”. E a Milano l’abbiamo fatto insieme con quel signore rumeno che stava accanto alla macchinetta dei biglietti.
Ve ne andate senza un voto sulla verifica, senza alcuna soddisfazione di aver fatto meglio di un altro compagno ma con la gioia che siamo stati una squadra e che anche chi non studiava ora arriva a scuola con il desiderio di aver imparato. Perché la nostra scuola non ha bisogno di “ottimi” e “scarsi”, di voti. L’unico voto è quello che ha fatto il vostro maestro: in-segnare, segnarvi, indicarvi le strade della vita.
Ora tocca a voi. Vi lascio con cinque regole:
1) Siate imperfetti. Ricordatevi quanto è stato bello sbagliare, fare un errore per migliorare. Ne farete ancora nella vita: sbagliate nel miglior modo possibile.
2) Non siate mai indifferenti. Non abbassate mai lo sguardo, non voltatevi mai dall’altra parte, cercate gli occhi di chi ha bisogno di voi.
3) Rompete sempre le scatole. Fatelo con i vostri professori, con i vostri genitori, con i vostri amici. Non accontentatevi delle risposte. Continuate a porvi dei perché. Usate la parola per questo.
4) Urlate. Pro-testate. Testimoniate. Sgomitate. Tanti vi diranno “voi siete il futuro”. Mandateli a tal paese: voi siete qui e ora.
5) Viaggiate, viaggiate, viaggiate.
A ognuno di loro consegnerò poi un crocifisso che arriva da Lampedusa, realizzato con il legno dei barconi dei migranti. E’ lo stesso che abbiamo avuto in classe tutto l’anno. E’ lo stesso che ha dato valore alle nostre lezioni: il valore dell’umanità.