Gli occhi sono puntati sull’ago della bilancia. E l’ago della bilancia potrebbe essere un’ex costola del centrodestra e dell’amministrazione uscente. A Lecce, fortino azzurro per eccellenza, tutto sta nel capire chi drenerà il malcontento, se il M5s, come un po’ ovunque in Italia, o se, invece, chi fino al 9 dicembre scorso ha fatto parte della giunta attuale, ricandidata in maniera compatta a sostegno di un altro nome, quello dell’inviato di Porta a Porta Mauro Giliberti.
Le amministrative salentine, quest’anno, potrebbero riservare la sorpresa ballottaggio. Passaggio scontato, altrove. Non qui. Non dove per due decenni di fila non c’è stata storia per nessuno, per nessun altro che non fosse la guida dell’armata destra. E dove, tranne una breve parentesi di due anni, non c’è stata storia neanche prima, ma solo un vasto impero della Dc. Nel frattempo, qualcosa di fatto è cambiata, dentro e fuori Lecce, città aristocratica, solitamente più restia agli scossoni, anche quelli che arrivano dalla Procura, come l’ultimo sulla gestione dei fondi per le vittime del racket, con la richiesta di arresto avanzata dai pm e respinta dal gip per l’assessore alla Casa e al Bilancio Attilio Monosi, interdetto dai pubblici uffici eppure ancora in pista con la lista Direzione Italia di Raffaele Fitto.
Niente, almeno in apparenza, sembra scalfire la politica di Lecce, dove molto, tanto, contano i salotti. Eppure, qualcosa di nuovo sembra esserci per davvero. Certo, il Movimento 5 Stelle è una variabile: cinque anni fa, quando era ancora ai margini, incassò appena il 2,68 per cento e fu l’allora candidato sindaco Maurizio Buccarella, attuale senatore, con le preferenze a lui dirette a far lievitare il consenso fino al 4,3 per cento. Intanto, però, i pentastellati hanno iniziato a strutturarsi sul territorio e puntano sul grande fascino di cui sono dotati a livello nazionale: non a caso, è stata questa la forza che in campagna elettorale ha fatto arrivare a Lecce più esponenti noti al grande pubblico. Quanto il loro Fabio Valente, 49enne a capo di un ente di formazione, riuscirà davvero a calamitare consenso è, al momento, un’incognita: alle ultime regionali ha sfoderato un bagaglio di 700 voti personali in città e la formazione che fa capo a Beppe Grillo ha avuto un exploit alle ultime europee e regionali.
Ma le amministrative, si sa, sono un’altra cosa, rispondono a dinamiche altre. E finora a Lecce hanno confermato un dato: il centrodestra unito ha vinto sempre. Ha perso l’unica volta in cui si è lacerato, arrivando al ballottaggio e consegnando il governo, seppure per appena un biennio, al padre dell’attuale candidato del centrosinistra Carlo Salvemini. Un déjà vu? Chissà. Di certo c’è che quello di Stefano Salvemini continua ad essere un nome importante: “il preside” è l’unico ad aver alzato bandiera rossa nella storia della città e, a distanza di 21 anni, è rimasto il solo riferimento vincente per un centrosinistra che da allora è andato sempre peggio. Il suo 43,78 per cento contro Adriana Poli Bortone, nel 1998, è diventato il 31,40 del senatore Alberto Maritati nel 2002; il 36,68 del deputato Antonio Rotundo nel 2007; appena il 25,84 dell’assessore regionale Loredana Capone nel 2012. Carlo Salvemini, 47 anni, presidente di una cooperativa che si occupa di editoria, è consigliere comunale di opposizione da lungo tempo e conosce così bene la macchina amministrativa da aver fatto scoppiare scandali giudiziari pesanti. Ma ha un vulnus: non ha con sé in campo molti veri portatori di voti, macchine del consenso da mille e oltre preferenze ciascuno, come quelle che l’ultima volta ha schierato il centrodestra, che le ha riproposte nuovamente a sostegno di Giliberti.
Non è detto che questo, comunque, possa bastare al giornalista, che ha dalla sua il valore di una lunga gavetta nell’emittente locale Telerama e una carriera brillante in Rai, volto pulito e stimato dai cittadini. Lui ha più di una grana. La prima è il normale calo fisiologico di una coalizione, dopo due governi consecutivi: nel ’98, Adriana Poli Bortone partì con il 54 per cento, per arrivare al 68,60 cinque anni dopo; Paolo Perrone, suo vice, ricominciò dal 56,21 nel 2007 per incassare il 64,30 nella scorsa tornata.
Giliberti, che si affaccia alla politica per la prima volta, ha, però, un problema in più, quello, come detto, di un outsider, assessore fino a ieri: un 35enne che trascina con sé un pezzo, ad oggi non quantificabile, di centrodestra, ma che suscita simpatie anche nel centrosinistra che ruota attorno alla figura del governatore pugliese Michele Emiliano. È Alessandro Delli Noci, ingegnere che ha scelto la via complicata della costituzione di un movimento civico a cui si è affiancato l’Udc. Per diversi mesi, non è stato considerato una vera spina nel fianco dagli azzurri. Ora, invece, dopo aver visto che è capace di riempire le piazze, ci si comincia a chiedere quanto sia in grado di moltiplicare quelle 705 preferenze personali avute nella scorsa tornata: se dovesse raggiungere tra l’8 e il 10 per cento – questo è il ragionamento – potrebbe spianare la strada al ballottaggio Giliberti-Salvemini. E poi dopo sarà un’altra la partita da giocare.
Non ci sono solo loro nell’arena, comunque. Ci sono anche gli antipodi: Luca Ruberti e Matteo Centonze. Il primo, progettista cinquantenne, è il candidato di Lecce Bene Comune, l’ex gruppo di Salvemini. Ha una lunga storia di militanza politica tra i movimenti cattolici e di sinistra, al fianco di poveri, di migranti, degli ultimi. Il secondo, Matteo Centonze, 29 anni, consulente aziendale, è, invece, espressione di CasaPound, i “fascisti del terzo millennio” che si riaffacciano platealmente alla vita cittadina, dopo aver lavorato in silenzio in molti quartieri lontani dal centro.
Sono proprio le periferie la grande trincea, i rioni distanti socialmente, culturalmente ed economicamente dal cuore barocco e turistico di Lecce. Lì dove ci sono sacche di povertà estrema, bacini di criminalità organizzata e l’emergenza abitativa è la priorità più scottante, tanto da trasformarsi in una eterna inchiesta della magistratura sull’assegnazione degli alloggi, un’inchiesta che vede indagati diversi amministratori uscenti, sindaco compreso, e che si trascina dalle scorse amministrative. Portando con sé un dubbio schiacciante: chi “possiede” le chiavi delle case popolari ha in tasca anche quelle del Comune?