di Claudia De Martino *
Lo scorso 5 giugno si sono celebrati i 50 anni della Guerra dei Sei Giorni, che ricordano ufficialmente l’affermazione di Israele nella regione e lo sbaragliamento di tutti gli eserciti arabi nemici, ma anche la ben più importante conquista di territorio conseguita alla vittoria militare (Cisgiordania, Striscia di Gaza, alture del Golan e Sinai, del quale solo due a oggi sono stati restituiti). Tutti gli altri rimangono sotto il controllo di Israele e costituiscono, de facto, parte integrante del suo territorio: sono infatti oggetto di continui innesti di popolazioni ebraiche ma anche di consistenti investimenti economici e rafforzamento militare.
Gli abitanti di questi territori sono governati da un sistema del tutto simile a quello coloniale europeo, ovvero godono di diritti e doveri differenziati in base all’appartenenza religiosa ed etnica, dettata dalla nascita in una determinata comunità e non modificabile. A differenza, però, di molti regimi coloniali del passato, il sistema vigente nel “Grande Israele” è, però, molto più complesso e improntato anche alla parcellizzazione territoriale, con sezioni di territorio amministrate con regole e principi diversi. Non solo vi esistono “gated communities” in cui solo i coloni possono risiedere, ma esse sono anche simbolicamente costruite sulle colline per controllare il territorio e collegate tra loro da strade riservate ai soli coloni (a partire dalla Seconda Intifada).
Inutile dire che anche la ripartizione del lavoro tra Israele e i Territori sia improntata a forti squilibri, con la popolazione araba che fornisce la base della manodopera a basso costo per la costruzione di quelle stesse “gated communities” e strade per soli coloni, nonché periodicamente – e in quote soggette all’alternarsi delle fortune politiche – immessa nel tessuto produttivo oltrecortina, l’Israele legittimo, per compiervi lavori stagionali o manuali, nei servizi e nelle costruzioni. Da qui la marea umana che si riversa, in assenza di attentati che complichino l’altrimenti funzionale relazione gerarchica tra occupanti e occupati, quotidianamente dalla Cisgiordania in Israele attraverso i checkpoints per svolgere le professioni più umili, ma che comunque rendono molto più di mansioni analoghe o superiori svolte dal “lato palestinese”.
A tutto questo si aggiunge la lungimiranza diplomatica delle autorità israeliane, la loro capacità di intercettare il sentire profondo dell’opinione pubblica sia araba che occidentale, strumentalizzando entrambe ai propri fini. Così, ai Palestinesi e ad un mondo arabo infarcito di retorica, che testardamente non vuole rendersi conto dei veri equilibri di forza sul terreno, nemmeno dopo 50 anni di irreversibile occupazione, e agli Occidentali che non vogliono cambiare paradigma di lettura del conflitto, si dice che l’Autorità nazionale palestinese è sovrana all’interno dei suoi territori e, quindi, responsabile del sottosviluppo dei suoi cittadini, ma anche delle violenze che periodicamente increspano i buoni rapporti tra governanti e governati, altrimenti improntati al benessere collettivo e alla cooperazione pacifica. Si inchioda alle sue presunte responsabilità un’impotente ANP mentre si strizza l’occhio alle sue spalle in modo complice ai Paesi arabi sunniti che “veramente contano” sulla scena regionale, ovvero a Arabia Saudita ed Egitto, dicendo a quest’ultimi che si può benissimo cooperare per canali ufficiosi malgrado la Palestina. Infine si lanciano gesti remissivi nei confronti delle due Superpotenze vecchie (Usa e Russia) e di quelle emergenti (Cina), affermando che Israele possa servire gli interessi di tutti, tanto a livello militare che economico, e assicurandosi così il continuo blocco di risoluzioni nei suoi confronti al Consiglio di Sicurezza.
Se questa è una buona fotografia dell’esistente, non serve più ripetere la formula vuota dei “due Stati per i due popoli” come se dovesse un bel giorno realizzarsi da sola, magari attraverso l’elezione di un Premier laburista israeliano coraggioso che scelga di evacuare i quasi 700.000 coloni dei Territori occupati o optare per una divisione drastica del territorio che li lasci oltrecortina, “regalando” i coloni più ideologici della Destra ebraica alla convivenza con i Palestinesi all’interno del futuro Stato.
Forse, però, è possibile pensare a un altro scenario, l’unico che potrebbe ancora avere senso: un unico Stato, quello che già esiste, smantellando il muro per renderlo uno Stato unico e con contiguità territoriale. Uno Stato che sarebbe necessariamente ebraico al momento, ma in cui quella lotta che i Palestinesi hanno a lungo condotto per la proprio indipendenza territoriale si trasformi invece in lotta per l’emancipazione, la libertà collettiva e i diritti politici di ogni singolo e di tutti i Palestinesi, per l’ottenimento della cittadinanza a pieno titolo all’interno della democrazia israeliana oggi riservata ai soli ebrei, indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Una cittadinanza che dovrebbe comportare il godimento di tutti i diritti democratici di cui usufruiscono i cittadini israeliani oggi, attentando dal di dentro ai dogmi che rendono possibile la tenuta dell’apartheid, in primis una rigida ripartizione per nazionalità e appartenenza religiosa.
La lotta per l’indipendenza territoriale è stata persa e oggi non ha più senso perché è lo stesso territorio rivendicato a non esistere più, ma quella per la libertà resta del tutto attuale anche nel XXI° secolo. Con che argomenti Israele potrebbe continuare a limitare il diritto di movimento, di espatrio, politici, di persone che si riconoscono come suoi cittadini? Con che pretesto potrebbe chiuderli in delle riserve, setacciare i loro quartieri di notte sotto lo sguardo vigile delle sue istituzioni democratiche, dei suoi cittadini e della Corte Suprema?
Occorre abbattere il “muro” prima che sia troppo tardi, prima che la distanza tra Israeliani e Palestinesi diventi troppo ampia, ma per farlo i Palestinesi devono rinunciare alla propria inutile vestigia di sovranità (l’ANP) e abbandonare le rivendicazioni territoriali, per recuperare la lotta per la libertà sotto un’altra forma. Esistono già coraggiosi leader che indicano questa strada – Ayman Odeh è uno di questi – e gli elettori palestinesi d’Israele hanno dimostrato di volergli dare credito, ma la vera sfida non è combattere per il 20% di arabi che costituiscono la mansueta minoranza interna, ma per quegli oltre 5 milioni che potrebbero costituire la metà del Paese.
* ricercatrice Unimed