San Paolo, 12 milioni di abitanti, la più grande città del Sud America, e altrettanti disoccupati sparsi per tutto il Brasile. E’ come se la tutta Svizzera e metà Austria fossero senza lavoro.
Tanta miseria porta violenza. Al telefono Leonardo mi fa: Non mettere l’orologio, nulla di luccicante che possa sembrare vero e non camminare con il cellulare attaccato all’orecchio che te lo sfilano come una baguette”. “Guarda che io da buona napoletana sono vaccinata agli scippi…comunque farò come dici tu”.
Sono seduta con Leonardo Di Caprio allo Sky Bar, un lounge sospeso al 32esimo piano, spalancato su una marea di grattacieli. Sembra New York, senza l’Empire State Building.
Adesso occore fare una precisazione, non si tratta dell’attore hollywoodiano ma del designer italo/brasiliano. Le curiose coincidenze non finiscono qua. Sono praticamente coetanei, quaranta anni e rotti, originari dello stesso paesino in provincia di Salerno, Trentola Lucenta, stesso nickname, Leo. Non si sono mai incontrati e il designer Leo non ha mai sfruttato a suo vantaggio l’omonomia. Anzi il mese scorso è uscito su una delle riviste d’arte più quotate negli States Dezeen un articolo che insinuava che l’attore premio Oscar si occupava anche di design e d’arredamento corredato di fotografie dei lavori dell’altro Leo. Nel giro di un nano secondo il designer chiedeva subito la smentita on line.
In comune i Leo al quadrato hanno una coscienza green e sono per un’architettura ecosostenibile. Il Leo designer usa principalmente materiali a bassissime emissioni inquinanti e solo legno certifcato. Per i suoi tavoli dalle geometrie optical, d’ispirazione un po’ decò, coniuga tecniche ebaniste artigianali con processi industriali di fabbricazione, minerali indigeni degli indios COME COME (concetto basato nel disegno dei gioelli dell’indigeni brasiliani, che lo produscono con semi collorati della forresta, da secoli)…
Anche il Leo disegner gira il mondo come una trottola, dalla Design Week milanese alla Norvegia, e il suo sogno nel cassetto ( da lui ovviamente disegnato) è quello di ritornare a vivere in Italia. E meno male che non è stato a sentire il papà Eliseo che lo voleva a tutti i costi avvocato. La laurea in legge l’la lasciata nel cassetto ( del padre).
Cosa vuoi fare da grande? Chiese Massimo Krogh, tra i più accredidati penalisti italiani, al figlio Anton Emilio. Risposta: “L’avvocato come te”. In realtà voleva fare il giornalista, comunque improvvisare istrioniche arringhe davanti alla Corte gli sembrava riduttivo. Eccolo allora, il mese scorso, al suo debutto al Teatro Parioli negli “Incontri con la Storia. Colpevole o inoocente”, a indossare nientepodimeno che l’uniforme di Mao Tze Tung. Poi si è messo a scrivere le sue memoir, un po’ dannunziane almeno a giudicare dal titolo “Come me non c’è nessuno”, sottotitolo Diario di un sogno (edizioni Mursia), due edizioni in un mese. E mette subito le mani avanti: “Il titolo è un’esortazione per chi legge a considerarsi un unicum. Lo diceva, d’altronde, anche Spinoza”. E aggiunge: “Ogni vita ha il suo Big Bang, il mio è stato un twist”.
Napoletano e siciliano, comunque borbonico (anche se, per sbaglio, nato a Padova), infanzia dorata ma solitaria. Senso di inadeguatezza. Unica cura alla sua solitudine è un mangiadischi che gracchia la voce dirompente di Rita Pavone. A quei tempi l’iconica Rita era la Madonna de noantri. Durante un concerto a Napoli, Anton, appena quindicenne, la tampina, le porta un mazzo di fiori in albergo e aspetta. Lei, all’inizio, se lo fila poco, poi nasce un’amicizia esplosiva come il Vesuvio. Tra un esame all’università, un supercalifragilistichespiralidoso e un ballo del mattone lei gli somministra pillole d’energia, gli insegna ad andare oltre le convenzioni, con tenacia ma anche con incoscienza. Rita la musa.
“Rita è la colonna musicale della mia vita”, dice Anton e lei, che oggi è una ragazza di 71 anni, ricambia tanta devozione accompagnandolo in tournèe alle presentazioni del libro in lungo e in largo per l’Italia. Un twist ballato tra luci e ombre, tra agi e disagi esistenziali, un libro che parla di sé ma anche tanto di noi, che racconta con ironia gli ultimi cinquant’anni della cultura pop italiana, dal boom economico ai paninari, la brillantina Tenax, le Timberland, la Londra di Nick Kamen e una New York dove ogni forma di amore era già normale. La vita di Anton si divide fra il rigore della professione e un dandismo di sottofondo. Con il desiderio, neanche troppo inconscio, di non voler diventare grande. Il leit motiv della sua vita? Da sintentizzare in una frase scarabocchiata su un graffito del metrò di New York: I miracoli accadono a chi al coraggio di fare scelte irragionevoli. Ad AE è accaduto.
Twitter @januariapiromal