Ho ricevuto molti commenti a proposito del mio post sulla vicenda della bimba dimenticata in auto dalla mamma, in cui spiegavo quanto potesse essere faticoso accudire una bambina per ore e ore durante il pomeriggio, quand’anche si fosse avuto un lavoro part time come quello di segretario comunale. Ma qui ho commesso un errore imperdonabile di cui mi scuso, e che per fortuna attenti e solleciti lettori mi aiutano a rettificare. Perché quello del segretario comunale – anzi segretario comunale (cioè il lavoro che faceva la mamma di Arezzo) – non è affatto un lavoro né part time né leggero. Al contrario.
Il primo a scrivermi è stato Pietro Veronese, che mi spiega che “il segretario comunale tecnicamente non è un lavoro part time” e per questo potrebbe avere avuto anche “una genesi in ciò che è accaduto”. Si tratta, spiega, di un lavoro stressantissimo, al quale si arriva dopo un lunghissimo percorso. È un lavoro che comporta a volte orari notturni, visto che “i Consigli Comunali finiscono normalmente anche oltre la mezzanotte”. Inoltre, i segretari comunali sono responsabili sulla corruzione e la trasparenza, oltre a essere garanti di tutti gli adempimenti amministrativi e non, con il rischio di sanzioni amministrative personali, tanto da essere costretti a fare costose assicurazioni personali. “Finire indagati o davanti alla Corte dei Conti è da mettere nel conto”, tanto che una collega – racconta sempre il dottor Veronese – ha subito un grave esaurimento. Chissà che la donna che ha subito il lutto non fosse nelle stesse condizioni.
Lo stesso mi scrive Giuseppa Vairo, segretario comunale per 40 anni. Dice che alle 14 si cominciava a lavorare, altro che finire. “Ho avuto due figli che ho allattato in comune tra una giunta e un consiglio, naturalmente nelle ore serali” e che la prima persona che ha visto dopo il parto è stato il tecnico comunale, che aveva bisogno che firmasse documenti importanti. Impossibile prendersi i mesi di allattamento. E poi racconta un episodio simile: “Io una volta dimenticai mia madre. Dovevo portarla da un’amica, invece la lasciai a casa e poi passai dall’amica chiedendole di farla scendere”.
E ancora Luciano Catania che, dopo aver spiegato con chiarezza le funzioni di segretario comunale, ricorda anche la necessità di aggiornamento continuo richiesto dalla professione, oltre al fatto che spesso si è segretari di più comuni, con conseguente aggravio del lavoro. “Il mio rispetto per una tragedia del genere”, mi scrive, “sarebbe andato a chiunque, a prescindere dal numero di ore lavorate, ma a maggior ragione va a un dirigente pubblico, con il quale condivido le preoccupazioni e le pressioni quotidiane. In più lei, a differenza mia, svolgeva anche la pesante professione di moglie e di madre“.
Cito ancora per completezza Vito Bonanno, sempre segretario comunale, che ricorda che in, quanto tale, lavora anche sabato e domenica, per leggere “gli atti più delicati, perché nonostante io stia in ufficio per oltre 50 ore a settimana, non arrivo a fare tutto”. E infine M. P., che – oltre a sottolineare che Renzi vuole abolire questa importantissima figura di controllo – sottolinea di non avere orari e lavorare anche nove o dieci ore al giorno, avendo sulle spalle la responsabilità di tutti i dipendenti del personale comunale (e magari di più comuni, fino a cinque).
Queste testimonianze, mi pare, gettano una luce più chiara su quello che può essere accaduto nel caso di Arezzo, sul quale molti psicoanalisti si sono gettati con pronte diagnosi, parlando di “sindrome di annullamento” e sostenendo che non è vero che la tragedia di Tamara può capitare a tutti noi. Invece, io credo che sia vero il contrario: non stiamo parlando di madri che gettano il figlio dal balcone o lo mettono in freezer, recentissimi e purtroppo reali casi di cronaca, nei quali sicuramente esiste una patologia, ma di una madre amorevole e innamorata della propria figlia, eppure probabilmente stressata oltre ogni limite. Ecco perché tutti noi dovremmo sentirci partecipi e soprattutto esposti allo stesso rischio, invece di metterci al sicuro con un comodo bollino di patologia che ignora le condizioni pratiche – lavorative e sociali – di questa mamma e più in generale delle donne di oggi. Donne divise tra l’essere madri e lavoratrici, ma spessissimo con un lavoro o precario o malpagato o, come nel caso in questione, sicuro ma talmente impegnativo da essere forse incompatibile, specie in assenza di aiuti, con l’avere una piccola creatura di 18 mesi da curare, crescere, proteggere.