“Freedom is on the way” si legge su un grande striscione calato dal cornicione di un palazzo su una strada che lambisce il Born e il Barrio Gotico, il cuore di Barcellona. Molti catalani vedono la libertà solo se si consuma un distacco netto da Madrid, una recisione dai suoi palazzi del potere, dalla burocrazia centrale, dal Tribunale Costituzionale, percepito come centro di conservazione, vero ostacolo al processo di indipendenza. Pochi anni fa tra le strade di Barcellona ci si imbatteva in sporadiche manifestazioni pubbliche che propugnavano la causa separatista, piccoli presidi di identità, un po’ elitari un po’ fuori tempo, che rivendicavano principalmente la tutela della lingua regionale e l’orgoglio di un’economica dinamica, moderna, costruita da imprese proiettate verso gli scambi con l’Europa.

C’è una data che segna la svolta nel processo separatista: il 10 luglio del 2010, giorno della manifestazione convocata da Òmnium Cultural – associazione messa al bando durante il franchismo perché responsabile di propugnare la cultura catalana e la conservazione della sua lingua. Mezzo milione di persone inondarono le Ramblas e le vie adiacenti per far sentire il grido di protesta contro la sentenza del tribunale Costituzionale che aveva bocciato lo Statuto, atto con il quale si riconosceva maggiore autonomia alla regione. Un evento individuato dagli analisti come la maggiore manifestazione della storia democratica della Catalogna, di portata superiore alla Diada – festa nella quale si commemora una sconfitta, la caduta di Barcellona nelle mani delle truppe borboniche – dell’11 settembre del 1977, giorno in cui per celebrare la fine del regime franchista i catalani scesero in piazza per gridare “libertà, amnistia e statuto di autonomia”.

La Diada del settembre 2012 mette insieme quasi due milioni di persone, una nuova associazione, l’Assemblea nazionale catalana, rivendica l’indipendenza e per la prima volta si afferma l’esigenza di dotarsi di una nuova struttura statuale. Il nuovo sentimento collettivo troverà più volte conferma nelle consultazioni per il rinnovo del Parlament, il 23 gennaio del 2013 l’organo legislativo regionale proclama la sovranità politica e giuridica della Catalogna, sogno separatista ancora una volta abbattuto da un intervento del Tribunale Costituzionale.

Così, proprio negli anni in cui si affievolisce la spinta secessionista dei baschi, la “spina nel fianco” per il governo centrale diventa la questione catalana, una catena umana di 400 chilometri ricorderà a Madrid che non sono le sentenze dei tribunali a definire il destino di un popolo. Il 9 novembre del 2014 si tiene un referendum consultivo, osteggiato dall’esecutivo del conservatore Rajoy e dalla Corte della capitale, voterà solo il 33% degli aventi diritto, il risultato è un chiaro plebiscito per l’indipendenza (80,6%). Una fetta consistente di catalani è per la creazione di un nuovo Stato, distante dall’invisa Madrid, tuttavia pienamente integrato nell’Unione europea e nell’Eurozona, visione poco affine a quella di Matteo Salvini che, negli ultimi anni, ha spostato il proprio radar politico dalla causa catalana all’euroscetticismo di Marine Le Pen.

Il disegno tracciato da Carles Puigdemont, presidente della Generalitat, ha i contorni di uno schema già visto: convocazione di un nuovo referendum, mancata legittimazione di Madrid, annullamento da parte della Corte, visto che la Costituzione prevede che un referendum sull’integrità territoriale debba coinvolgere l’intero corpo elettorale del paese. Seguiranno polemiche, nuovi rancori, denunce alle autorità per insubordinazione. Non è un caso che i sindacati in queste ore invochino protezione giuridica per gli oltre quattromila funzionari che potrebbero essere impegnati nella consultazione. Organizzazione incerta, ancor di più nelle principali città catalane, quali Tarragona e Hospitalet de Llobregat, guidate dai socialisti contrari alla secessione. La stessa Ada Colau, sindaco di Barcellona e leader dei movimenti riuniti in Barcelona en Comú, si è detta contraria al referendum. Insomma, tutto cambia perché nulla cambi.

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