di Omar Massaro
Perché la morte in galera di un personaggio noto al mondo per la sue qualità criminogene non sarebbe dignitosa? Nel Paese in cui è prassi che cittadini comuni gravemente malati vengano volgarmente ignorati da ogni autorità qualora manifestino la volontà di ottenere una morte indolore a fronte di una vita penosamente rubata dalla malattia. Di questi cittadini nulla importa fino al giorno in cui chiedono alle istituzioni, con coraggio immenso, di essere aiutati ad accelerare la propria fine. Nella folcloristica terra, in cui tutti hanno fama di essere rispettabilissimi Signori e in cui il malato ignoto viene costretto a fuggire per morire esule evitando così di offendere la pubblica sensibilità, si discute se un efferato criminale sociopatico confinato al carcere duro debba o meno tornare nella sua dimora e lì esalare dignitosamente l’ultimo respiro con tanto di estrema unzione e amen?
La lingua italiana è chiara: “dignità” è la “Condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e ch’egli deve a se stesso”. “Rispetto che l’uomo, conscio del proprio valore sul piano morale, deve sentire nei confronti di sé stesso e tradurre in un comportamento e in un contegno adeguati”. Essa ha dunque a che fare con la vita e con l’uomo in ragione della stessa; è il valore che l’uomo possiede per natura (il suo essere umano) ad essere la fonte indiscutibile della sua dignità.
Egli risulta degno di valore, dignitoso in se stesso, in quanto tale perché umano. Più sottilmente, tale valore risulta essere in sé stesso riconosciuto, sì aprioristicamente, ma la “nobiltà morale” gli compete anche in ragione del suo “grado” e dalle sue “qualità intrinseche” da se stesso riconosciute in quanto degne e orientate a un comportamento consono al riconoscimento dell’importanza della vita e degli altri esseri umani. Ciò che è dignitoso è umano e appartiene al contempo alla vita sia in sé che alla luce della condotta di ciascuno. Perché allora sarebbe sconveniente che un condannato al carcere duro muoia in galera se fino alla fine riceve le cure mediche necessarie? Garantendole nessuno degraderebbe la sua dignità.
Per i gruppi sociali, un efferato criminale sociopatico è un’aberrazione non difforme metaforicamente da un cancro per l’organismo umano. Alla medicina non chiediamo di agire con dignità contro i tumori, evitando magari di bombardarli di radiazioni, ponendo così fine in modo più dignitoso alla loro presenza nei nostri corpi. In questi casi è anzi proprio la morte a conferire dignità ad una vita spregevole e indegna. L’atto più dignitoso di un uomo con una tale biografia sarebbe sparire, dissolversi, in qualsiasi modo ciò avvenga, a compensare la meschinità brutale della sua esistenza. In questi casi, la morte è sempre dignitosa e lo è alla luce del significato di dignità, considerato che la sua intera esistenza è stata votata allo spregio di questo concetto e al vilipendio della vita.
Ma non sarebbe comunque neanche lontanamente sufficiente o consolante alla luce delle catastrofi sociali e delle sofferenze individuali causate, purché avvenga senza assurdi pietismi giudiziari di sorta o di chi per decenni ha protetto e continua a proteggere per luridi tornaconti ogni mafia; che si spenga nello stesso buco in cui ha condotto gli ultimi e sempre troppo pochi anni della sua insignificante esistenza a legittima esecuzione di una giustizia che si è pronunciata per il suo isolamento.
Lo dico urlando, che il mio è il Paese di Matteotti, di Gramsci, di Amendola, di Calamandrei e Salvemini. E io sono Cesare Terranova; sono Antonio Scopelliti; sono Boris Giuliano.
Io sono Rosario Livatino; sono Rocco Chinnici; sono Peppino Impastato e Libero Grassi; sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Io sono tutte le vittime della mafia e i loro familiari e voi, che alimentate la mafia, “Voi non siete un cazzo”. Voi siete Totò Riina.
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