Può un anziano dirigente laburista britannico dalle idee radicali e i toni compassati guidare il suo partito a una rimonta nel periodo di massima egemonia dei conservatori? Secondo molti, era solo fantascienza. Corbyn era “troppo scollato dal mondo reale”, “troppo socialista”, “troppo novecentesco”, “troppo poco mediatico”, dando per scontato che il suo partito sarebbe stato relegato a un ruolo di pura comparsa alle elezioni. Questa prognosi infondata ha costretto in molti a mangiarsi il cappello tra giovedì sera e venerdì mattina, quando il Labour Party ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto, ottenendo molti più seggi di quanti ne avesse ottenuti nel 2015 il più moderato Ed Miliband, e prendendo molti più voti di quanti ne avesse presi nel 2005 l’ex primo ministro Tony Blair, oratore dall’eloquio coinvolgente.
L’impresa ha il sapore dello straordinario soprattutto perché mette un argine alla destra in un periodo in cui la sua ideologia sembrava dilagante, e solo poche settimane dopo che i sondaggi avevano previsto per Corbyn una Caporetto definitiva. Non è una vittoria, ma la rimonta c’è stata e l’attuale debolezza di Theresa May potrebbe di qui a poco aprire lo scenario di nuove elezioni, a cui i Labour si presenterebbero da una posizione di maggior forza. Il risultato ha lasciato molti commentatori basiti. Non solo Corbyn incarna un orientamento politico dato per sconfitto, ma è altrettanto vero che il candidato laburista non sia esattamente un appassionato agitatore di folle. Il suo aspetto da vecchio professore di geografia e i suoi pacati sermoni fanno di lui un leader anomalo e riluttante – aspetto, quest’ultimo, confermato anche da chi lo conosce bene. Nel senso classico del termine, Corbyn non è esattamente una figura carismatica: le sue battute non sono prorompenti, i suoi giri di parole sono semplici, la voce non ha mai acuti e non sciorina metafore graffianti.
Questa, tuttavia, è l’analisi superficiale di chi si limita a prendere in considerazione le caratteristiche esteriori della politica. Il politologo americano James Scott offre una definizione di carisma molto più convincente. Il carisma non risiederebbe tanto in qualità personali – ossia nel magnetismo di un determinato candidato –, quanto nella reciprocità che si viene a stabilire tra quest’ultimo e un particolare pubblico. Questa relazione ha luogo nel momento in cui un leader rende “dicibili” una serie di cose che erano represse dalla linea di condotta dettata dal discorso egemonico, ma che tuttavia “bollivano” sotto la superficie. È il fatto di portarle a galla, di rendere esprimibili e dignitose aspirazioni a cui veniva negata la legittimità sociale, a caratterizzare il carisma: non, quindi, una qualità intrinseca alla persona, bensì conferita da tutti coloro che trovano liberatrice la rottura di quel “cordone sanitario” che un ordine sociale istituisce tra ciò che può essere detto e quello che deve rimanere fuori.
Cos’è che ha reso “dicibile” Corbyn, dunque? Corbyn ha fatto leva su elementi di un senso comune che sta emergendo in diverse società occidentali e che già ha fatto le fortune elettorali di alcuni soggetti politici considerati “fuori dalla storia”, dall’establishment politico e giornalistico. Tra le altre cose, questo senso comune ha in odio la rapacità delle élite economiche, le politiche di austerità, la mancanza di lavori dignitosi per l’ex classe media. Nel contesto britannico, questo ha preso la forma dell’indignazione per i profitti scandalosi dei manager della City, del rifiuto per l’innalzamento delle rette universitarie e lo smantellamento del sistema sanitario, della rabbia per salari minimi al limite del ridicolo, a fronte di un costo della vita esorbitante. Una serie di intuizioni che cozzano clamorosamente con l’individualismo e lo spirito competitivo che le società odierne iniettano in dosi da cavallo, e che proprio per questo hanno bisogno di qualcuno che le indichi pubblicamente come rivendicazioni ragionevoli.
Si badi bene – e questo va detto sia per inquadrare il contesto che per mettere in guardia i goffi imitatori italici – ci sono condizioni di plausibilità affinché questa operazione possa avere successo. Corbyn non ha rinnegato il suo passato politico, ma non ha nemmeno fatto dell’orgoglio di essere di sinistra la sua carta vincente. Il suo risultato va ascritto alla capacità di mettere da parte l’identità di parte, per privilegiare la ricerca di un consenso ampio che parlasse a tutti, scavando anche tra coloro che le volte scorse avevano votato per l’Ukip di Nigel Farage. Parimenti, va ricordato che Corbyn è rimasto sempre rigorosamente estraneo alle sirene delle riforme al mercato del lavoro, della guerra, dello slittamento al centro. La biografia ha il suo peso e non si improvvisa.