Palermo fa storia a sé, Cuneo e Frosinone non sono provette di laboratorio da poter usare in scala per il livello nazionale. Eppure gli unici tre capoluoghi che hanno un sindaco sono l’esempio di cosa sono diventate le elezioni amministrative: in Sicilia, nel capoluogo, Leoluca Orlando è sindaco per la quinta volta grazie alla propria personalità e nascondendo i simboli di partito, anche se marcatamente nel campo del centrosinistra; a Cuneo governavano i centristi guidati dall’Udc e siccome i tempi sono cambiati il sindaco Federico Borgna è stato confermato ma questa volta con sopra l’etichetta del Pd; a Frosinone, infine, resta sindaco Nicola Ottaviani alla guida di una coalizione di centrodestra che nel Lazio profondo non può contare sulla Lega Nord, qualsiasi cosa pensi il segretario del Carroccio Matteo Salvini. Ma se il dato che salta all’occhio è che i Cinquestelle non sono competitivi in nessuna delle principali 25 città d’Italia soprattutto quando tornano unite le coalizioni tradizionali dei due poli, resta il dato che il centrosinistra – qua unito e là diviso – ha il fiatone.
In 14 casi si presenta al ballottaggio in ritardo rispetto al centrodestra: Asti, Como, Monza, Genova, Gorizia, Padova, Spezia, Piacenza, Rieti, Lecce, Taranto, Catanzaro, Oristano. A questi si può aggiungere Trapani, dove in vantaggio è Girolamo Fazio, ex Pdl che si è ripresentato con una civica. Quello che importa, tuttavia, è che in 9 di questi casi la giunta uscente è di centrosinistra o di sinistra. In altri 5 capoluoghi, invece, il centrosinistra andrà al secondo turno vantaggio, anche se a volte lieve: Alessandria, Lodi, Lucca, Pistoia, L’Aquila. Fanno storia a sé da una parte Verona (dove la compagna del sindaco uscente Flavio Tosi, la senatrice Patrizia Bisinella, potrebbe soffiare nelle ultime sezioni il posto al ballottaggio al centrosinistra) e dall’altra Belluno e Parma: nella città veneta si sfideranno due liste civiche, ma una è del sindaco uscente Jacopo Massaro, diventato celebre 5 anni fa perché per Matteo Renzi (che era di là dal diventare e segretario e premier) era l’esempio della politica nuova di centrosinistra; nel capoluogo emiliano invece il caso è noto, c’è Federico Pizzarotti che ora è etichettabile come “lista civica” ma è lì perché c’è arrivato cinque anni fa con il M5s, e ora se la vedrà contro il centrosinistra. A Gorizia, infine, il sindaco uscente di centrodestra Rodolfo Ziberna non supera per il 50 per cento per soli 23 voti: sfiderà al ballottaggio il candidato del centrosinistra, Roberto Collini, staccato di 27,2 punti percentuali.
Per il centrosinistra il giudizio è almeno sospeso fino ai ballottaggi. Ma oggi, dopo il primo turno, sorride solo perché dopo tre anni di governo Renzi insieme ad Alfano forse si aspettava un’altra botta come lo scorso anno che invece non è arrivata, per ora. Ma è significativo il fatto che Matteo Renzi non abbia fatto un solo comizio, si sia limitato a qualche newsletter e post su facebook e infine abbia detto – come al solito – che sono sfide tutte locali, fa capire che aveva annusato l’aria. A meno che il segretario del Pd non consideri “suo” Leoluca Orlando (di sicuro Orlando no, visto che se l’è presa a morte quando dice di averlo sentito durante la diretta tv di Mentana).
La sindrome di Genova (e il M5s stavolta non c’entra)
Per il Pd, piuttosto, si potrebbe chiamare “sindrome di Genova“. Se a Palermo tutto è filato quasi liscio con un candidato non proprio organico e perché la soglia per l’elezione diretta è abbassata al 40 per cento, nel capoluogo ligure democratici e alleati si sono occupati di cosa accadeva ai Cinquestelle senza accorgersi di essere sorpassati da qualcun altro, cioè il centrodestra nell’assetto con cui ha già trionfato a sorpresa alle Regionali, con la Lega che è il terzo partito della città. Un pensiero che per il centrosinistra assomiglia a un incubo: una vittoria del centrodestra a Genova potrebbe essere paragonato solo al successo di Giorgio Guazzaloca a Bologna, ormai 18 anni fa, o a quello di Filippo Nogarin a Livorno nel 2014. E questa volta non c’è più la scusa del ballottaggio che favorisce il voto “anti”.
Renzi, su Genova, forse ha già pronta la giustificazione: Crivello non è uno del Pd, viene da Sel, si vanta di avere ancora la tessera del Pci, è più in continuità con il sindaco uscente Marco Doria di quanto non dia a vedere il sostegno elettorale dei democratici, che comunque sono il primo partito in città. Ma la depressione che ha colpito il Pd già dalle Regionali 2015, con una ritirata progressiva in tutto il centronord, anche quest’anno caratterizza la prestazione elettorale del partito del “nuovo corso”. Perfino nelle Regioni cosiddette rosse. A Lucca – eccezione democristiana e poi berlusconiana in Toscana – 5 anni fa aveva vinto il centrosinistra facendo il vuoto: ora il sindaco Alessandro Tambellini si presenta al secondo turno temendo che il suo rivale (il giornalista Remo Santini, buoni rapporti sia con Marcello Pera che con Andrea Marcucci) raccolga i voti del M5s e di Casapound, schizzato sopra al 7 per cento. Passando per l’Emilia, invece, a Piacenza – città della “Ditta”, dove finora ha governato il sindaco Paolo Dosi – in vantaggio è la candidata del centrodestra Patrizia Barbieri, figura civica che ha avuto il sostegno di tutti i partiti del centrodestra e potrebbe raccogliere molti dei voti della percentuale in doppia cifra di un altro candidato di area.
Rotolando verso sud
Il Pd abbandona il Nord. Finora aveva retto grazie ad alleanze “larghe”. Ma le risse nazionali – con la sinistra-sinistra e con pezzi dello stesso Pd poi fuoriusciti – riducono la potenza dell’alleanza. Era successo soprattutto in Lombardia, dove il centrosinistra “formato Pisapia” aveva dato le uniche soddisfazioni nel disastro elettorale del Pd renziano nel 2016. E ora al Nord accade che la coalizione si presenta in ritardo al secondo turno ad Asti, a Como, a Monza, alla Spezia, tutte amministrazioni che finora sono state a guida centrosinistra (anche con radici storiche come La Spezia di Andrea Orlando). Per non parlare del Veneto, dove il Pd non tocca palla a Verona che è una questione tutta interna al centrodestra se non a leghisti e ex leghisti e a Padova deve pregare che l’elettorato “movimentista” del docente universitario Arturo Lorenzoni voti per l’imprenditore in giacca candidato dal Pd, Sergio Giordani, contro Massimo Bitonci. Ma al Sud per il Pd non va meglio: di Taranto si sono occupati sia il governo centrale, sia la Regione di Michele Emiliano e lì votano la candidata del centrodestra Stefania Baldassarri e il secondo partito della città (dietro ai democratici di qualche decimale) è la Lega d’azione meridionale di Michele Cito, figlio di quel Cito.